American Primeval, la recensione: un western brutale, cupo, appassionante
Ecco com'è la miniserie in streaming su Netflix scritta dal Mark L. Smith di Revenant e diretta da Peter Berg (il regista di Deepwater e Boston - Caccia all'uomo). La recensione di American Primeval di Federico Gironi.
“1857, Territori dello Utah, selvaggi e indomabili. L’esercito degli Stati Uniti, le milizie dei Mormoni, i nativi americani e i pionieri: tutti impegnati in una guerra brutale per la sopravvivenza. Ogni uomo, donna o bambino che arrischi di entrare in quelle terre diviene vittima di questo sanguinoso fuoco incrociato”.
La didascalia che apre il primo dei sei episodi di American Primeval dice già tantissimo. Basterebbe aggiungere che a Fort Bridger, avamposto fondato e governato da Jim Bridger (Shea Wigham) arrivano dall’est una donna e il suo ragazzo. Lei, Sara (Betty Gilpin) chiede di raggiungere la cittadina di Crooks Springs, a ovest, attraversando quelle terre. Ovviamente nessuno sarà disposto a accompagnarla: nemmeno, all’inizio, il solitario e oscuro Isaac Reed (Taylor Kitsch), scout cresciuto dagli Shoshoni e dal passato misterioso. La loro storia si incrocerà con quella di una coppia di mormoni appena sposati (Dane DeHaan e Saura Lightfoot-Leon), sopravvissuti a (e separati da) un massacro di pionieri che si erano temporaneamente accampati eseguito in segreto dalle milizie dei loro correligionari, composte da gente spietata e crudele come i gerarchi nazisti, con quella di un fiero guerriero shoshoni (Derek Hinkey), di un capitano dell’esercito che vuole vederci chiaro sugli esecutori di quell’eccidio (Lucas Neff) e con le mire di Brigham Young (Kim Coates), capo della congregazione mormona che vuole fare di quelle terre la sua Zion.
American Primeval: il trailer ufficiale della miniserie
Gli elementi del western ci sono tutti, non ne manca praticamente nessuno (se non, guarda caso, lo sceriffo, ovvero la legge, ovvero il consesso civile). Perfino il ritratto dei Mormoni, spietati e sanguinari coloni che “difendono” quella che ritengono la loro terra promessa non è nuovo, e risale ai tempi degli albori del genere e del cinema muto. E però raramente, specie in tempi recenti, il genere è stato declinato con questa brutalità, con visceralità radicale e materica fatta di fango, sangue, rocce, carni, lame e proiettili con una visione così spietatamente cupa e disperata di un mondo e di un’umanità.
A scrivere c’è Mark L. Smith, che non a caso è quello del Revenant di Alejandro González Iñárritu; a dirigere Peter Berg, uno che quando vuole è uno dei più ruvidi, fisici e sanguigni registi di action dei nostri tempi, quello che ha diretto Mark Wahlberg in film come Lone Survivor, Deepwater e Boston - Caccia all'uomo. Smith e Berg si prendono una trentina di minuti per introdurre i loro personaggi principali, per tratteggiare un universo che già si percepisce come ostile, difficile, pericoloso, ma scaduto quel tempo sbattono immediatamente in faccia allo spettatore, facendogli fare un salto sulla poltrona, la prima delle tante violentissime scene di carneficina che costellano la serie, e che ne costituiscono non tanto la base spettacolare, ma ideologica.
Anzi, a dirla tutta la violenza inizia anche prima, protagonista una giovane ragazza indiana che finirà per unirsi a Sara e suo figlio dopo qualcosa che non svelo.
Senza fare sconti di alcun tipo, con piani sequenza notevoli con camera a mano, e l’uso insistito del grandagolo per deformare la realtà e chiudere vittime e carnefici dentro una bolla visiva che non lascia scampo né a loro né al nostro sguardo, American Primeval mette sullo schermo, in quel primo episodio come nei successivi, una violenza che non è solo esplicita, ma che è la manifestazione unica possibile della crudeltà, del cinismo, della rabbia e della mancanza di scrupoli di personaggi dall’animo nero o ferito, di uomini che sembrano aver perso ogni fede, ogni speranza, ogni connotazione umana.
“Più tempo passo qui cercando di trovare un senso in questo luogo, più mi ci perdo dentro. Sento di scivolare sempre più lontano da ogni cosa che possa comprendere. Pace e innocenza stanno perdendo la loro battaglia contro odio e paura. La pace ora è una minoranza che si assottiglia. Pochissimi in questa terra hanno compassione. La tenerezza più basilare si è indurita e è ora, e tempo per sempre, grandemente indebolita. Sono sopraffatto da un grande dolore che deriva dalla tremenda e onnipresente mancanza d’amore. Sono rimasti in pochissimi in queste terre a conoscere la Grazia. C’è solo brutalità qui”.
Lo scrive sul suo diario il capitano della cavalleria degli Stati Uniti Edmund Dellinger, uno dei pochissimi personaggi positivi della serie. Di sicuro l’unico innocente (ma anche ingenuo nel suo rincorrere il barlume della civiltà), l’unico non toccato e sopraffatto (ancora) da una qualche oscurità, dall’avidità, dalla consapevolezza della brutalità selvaggia e primordiale che li circonda e che portano dentro di loro. Perché perfino Sara nasconde un segreto che la farà inseguire dalla violenza più rapace; perfino il navigato e sarcastico Jim Bridger, che voleva solo “tenere la testa bassa e farsi gli affari suoi”, sarà costretto a compromettersi. Perfino il grande anti-eroe solitario, tormentato e romantico di questa serie, Isaac Reed (personaggio che pare nato per far sdilinquire donne e ragazze di ogni età e stimolare un'immedesimazione impossibile nel pubblico maschile), trova una qualche forma di grazia solo alla fine della serie, e vive costretto a seguire le regole più feroci della sopravvivenza.
Nel suo ottimo Horizon, che sta trovando via streaming il successo che gli è mancato in sala, e che in fin dei conti ha tematiche molto simili a quelle di American Primeval, Kevin Costner manteneva, seppur magari fievole, la luce di una speranza accesa, e vedeva nella grande epopea del west e della nascita di una nazione qualcosa di romantico che riusciva a sopravvivere al sangue e alla sopraffazione. In American Primeval sopravvivono in pochissimi, di certo non il romanticismo di quell'epopea, e in fin dei conti così dev’essere. Per ragioni di equilibrio narrativo, e di scrittura, perché nessuno qui vuole calare le braghe di fronte alla dittatura del lieto fine, ma anche perché il disegno di Smith e Berg è esattamente quello. La loro volontà è quella di raccontare l’orrore, la sopraffazione, il genocidio di un popolo, la violenza di una cultura, senza indorare alcuna pillola. Perché quella è la storia del loro paese. E forse anche perché quella è, o rischia di essere, la storia del loro paese anche oggi, a un secolo e mezzo (che pure è un battito di ciglia secondo i tempi della storia) da quello che hanno deciso di raccontare, e che raccontano con un cast perfetto, con una gestione esemplare dei tempi e delle linee narrative, con una regia capace di alternare senza tregua e rigidità epica, violenza, crepuscolarismo, sospensioni allucinate e quasi mistiche, paesaggi spettacolari e ritratti umani di brutale naturalismo.
Il risultato è quello di una miniserie trascinante, da bersi tutta d’un fiato, che brucia la gola e lo stomaco, come un robusto shot del peggior whisky servito nel saloon di Fort Bridger.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival