Dostoevskij: Recensione della serie dei fratelli D'Innocenzo
Presentata in prima mondiale alla Berlinale la cupissima (ma potentissima) opera dei D'Innocenzo, con Filippo Timi impegnato nella caccia a un serial killer nichilista. Arriverà al cinema a giugno, in due parti, e su Sky in autunno in sei episodi. Ecco la recensione di Dostoevskij di Federico Gironi.
C’è una scena di Dostoevskij a cui ripenso dal momento in cui sono uscito dalla proiezione integrale di questo film in due parti, o questa serie, a seconda di come la vogliate considerare. Di questo potentissimo racconto audiovisivo di Damiano e Fabio D’Innocenzo.
Una scena accessoria, interlocutoria, idealmente superflua nell'equilibrio narrativo generale, nel contesto di una storia di caccia a un serial killer che, se volete, ha i toni duri e cupi di un Seven spogliato da ogni artificio, retorica, abbellimento, patinatura, estetizzazione, ammorbidimento e compromesso hollywoodiani, rimanendo quindi una vicenda tragica e dolente, scomoda e oscena, brutale e inzuppata di oscurità.
La scena a cui continuo a pensare, che arriva nella parte finale di Dostoevskij, vede protagonista Federico Vanni, bravissimo interprete scovato dai D’Innocenzo che interpreta il ruolo di Antonio, capo e migliore amico del protagonista Enzo (Filippo Timi). Antonio, dopo aver fatto brevemente ritorno a casa da moglie e figlie, esce sbrigativamente di casa per raggiungere Enzo, che è in fuga, e che sa sta per commettere qualche leggerezza. Mentre guida nel nulla della notte per raggiungere Enzo, si ferma in una specie di autogrill, deserto, dove entra per mangiare qualcosa, chiedendo al giovane barista “il meno peggio dei tramezzini rimasti”. Poi riceve un messaggio sul telefono. Dalla moglie. Chiede che sia il giovane barista a leggerglielo, e a rispondere le parole che gli detterà. La situazione è surreale, imbarazzata, carica di tensione drammatica. C’è di mezzo la fine di un matrimonio. Poi Antonio esce di nuovo nel nulla della notte, per andare da Enzo, e arriva un nuovo messaggio dalla moglie.
Non entro nei dettagli per non fare troppi spoiler, ma per la bolla narrativa che rappresenta, per come è scritta, girata, recitata, per i toni che evoca, e i cambi di tensione e di registro, è un pezzo di cinema secondo me di altissimo livello. Altissimo.
È la spia, la dimostrazione, l’evidenza delle straordinarie capacità e il puro, cristallino talento, di Damiano e Fabio D’Innocenzo, che pure sono messi sullo schermo per tutto Dostoevskij, ma che qui risaltano proprio per la natura singolare, episodica e lunare della scena, in cui a emergere sono sentimenti e toni diversi da quelli del resto del racconto, e che dimostrano anche una sensibilità e una conoscenza della condizione umana davvero raffinata.
Abbiamo detto che Dostoevskij racconta della caccia a un serial killer.
Enzo, poliziotto depresso - lo incontriamo nella prima scena, per la prima volta, mentre tenta il suicidio - e ossessionato dalla cattura di un assassino seriale che lascia sulla scena del crimine lettere manoscritte che giustificano il suo operato nel nome di un nichilismo esistenziale asfissiante. Enzo è brusco, ruvido, intrattabile. Si scontra duramente con l’ambizioso novellino che gli hanno affiancato, e che vuole forse fargli le scarpe (Gabriel Montesi). Cerca senza grandi risultati di riallacciare i rapporti con una figlia (la Ambra di Carlotta Gamba, protagonista di una performance meravigliosamente feroce e ferina) che ha misteriosamente abbandonato quando era una bambina, e che è diventata una ragazza randagia e tossica, senza rispetto di sé né del suo corpo. Un corpo che regala senza troppi problemi.
Il quadro generale, come capirete, è tutt’altro che allegro. Mai come prima i D’Innocenzo hanno spinto tanto forte sul pedale della cupezza, e il nichilismo esistenziale del loro assassino (che è anche quello di Enzo) pervade ogni angolo e risvolto del racconto. Ti fa sentire scomodo, ansioso, sporco, Dostoevsky. Non è una bella sensazione, nelle fasi iniziali del racconto è quasi opprimente: è quello che vogliono i D’Innocenzo, e sono bravissimi nel farlo.
Sono bravissimi anche quando, e quel momento arriva, stai quasi per dire “basta” dentro di te, per ribellarti a quello che - nei personaggi e negli stati d’animo, nelle vicende e nelle azioni, e perfino nei luoghi - non è un degrado ma una vera degradazione, una sorta di putrefazione dell’esistenza - e loro rilanciano con un ordito narrativo così elaborato, complesso e stratificato, da farti rompere il fiato, lasciare dietro la fatica e dimenticare quel disagio. Per portati - quasi legato mani e piedi - completamente dentro quel mondo.
Basta pensare alla progressione che ha l’Atto Primo del loro film (o, se preferite, che hanno i primi tre episodi della serie), per avere dimostrazione pratica di questa capacità, di questa abilità.
Della dolcezza aspra e dolorosa di certe dinamiche tra Enzo e Ambra, che portano una luce piena di ombre e di illusioni di speranza nei meandri più oscuri di questa storia e di questi personaggi.
Già. Perché, come già e più di quanto non sia stato in precedenza, nel cinema dei D’Innocenzo, Dostoevskij è una serie (o un film) in cui sì, certo, la trama è importante, a suo modo strutturalmente fondamentale, ma attorno a quella spina dorsale narrativa i fratelli fanno crescere e sviluppare un organismo che pulsa di un’umanità fatta di psicologie, situazioni, momenti e deviazioni che assumono un ruolo fondamentale nella complessità dell’insieme.
Così, oltre alla scena già descritta, si potrebbe parlare, per esempio, del ruolo giocato all’interno del racconto dal personaggio di un giovane cuoco di un ristorantaccio (il bravissimo Leonardo Lidi) con cui l’Enzo di Timi entra in contatto nel corso delle sue indagini private, il modo in cui è raccontato, i dialoghi che lo vedono coinvolto, il modo in cui contribuisce a sorreggere parti apparentemente opposte del della storia.
E poi, come già e più di quanto non sia stato in precedenza, nel cinema dei D’Innocenzo, Dostoevskij non potrebbe essere il film (o la serie) che è senza il modo unico e inconfondibile in cui i fratelli, con lo scenografo Roberto De Angelis, raccontano il mondo fisico. I luoghi - o meglio, i non luoghi - del racconto.
Quello di Dostoevskij è un mondo che riesce a tenere assieme, in una tensione esaltante e lacerante assieme, il massimo del realismo con il massimo dell’astrazione. Non ci sono richiami precisi (persino le uniformi e le auto della polizia hanno stili e contrassegni che non sono quelli reali), ma c’è l’universalità di quella zona di confine che rende sovrapposte, inconfondibili, alternativamente possibili la campagna e la periferia estrema.
Viene da pensare a quelle immagini evocate di recente da Tommaso Pincio in un articolo su Roma pubblicato su Lucy, quelle immagini pittoresche “dei ruderi semiaffondati nella campagna, gli animali al pascolo con un acquedotto in lontananza, i pastori seduti su un mozzicone di colonna”: solo che al posto dei ruderi di una gloria antica, qui ci sono gli scarti e i rifiuti della decadenza contemporanea: lavatrici, spazzatura, roulotte, auto abbandonate, case fatiscenti, pensioni di ottava categoria, colate isteriche di cemento, muri scrostati, infiltrazioni di umido, muffe, arredi di quart’ordine, casolari desolati e ecomostri disabitati.
Il quadro, come capirete, è cupo. Cupissimo. Ma capace di un magnetismo quasi irresistibile, grazie alla capacità - qui, davvero, letteralmente dostoevskijana - dei D’Innocenzo di raccontare e comprendere la natura umana, e di saper usare il cinema come pochissimi altri.
Tutto girato in 16mm, con scelte estetiche e formali coerenti all’idea di cinema e di mondo che hanno i fratelli, le immagini di Dostoevskij - fotografate da Matteo Cocco e montate da Walter Fasano - hanno una radicalità sorprendente, e la capacità di generare bellezza anche quando raccontano il degrado e lo squallore.
Sempre sul filo del rasoio, i D’Innocenzo non sfociano mai nella maniera, come purtroppo accaduto di recente a alcuni loro emuli, a giovani registi che li hanno (anche a ragione) presi come esempio, ma privi dello stesso talento e della stessa profonda, filosofica convinzione, della stessa accurata determinazione a far coincidere forma e contenuto, della caparbietà priva di compromessi con cui loro, i D’Innocenzo, dispiegano il loro pensiero e la loro volontà.
Al netto di alcune piccolissime, forse inevitabili sbavature (come alcuni dialoghi nella prima parte, troppo stilizzati su un modello di noir anglosassone che stona col contesto), e al netto del dolore psicologico che si prova, per inamovibile dichiarazione di principio e di intenti dei gemello, nel calarsi nell’atmosfera malsana del racconto, Dostoevskij regala momenti di grande cinema, un viaggo narrativo in un mondo perversamente affascinante e dolorosamente umano.
Conferma un talento unico, radicale, controverso, lontanissimo da ogni banalità, ogni semplificazione, ogni conciliazione.
Mai come prima d’ora i D’Innocenzo spingono a scegliere: prendere o lasciare.
Io prendo, me li prendo, e me li tengo strettissimi.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival