La cache: la recensione del film di Lionel Baier in concorso al Festival di Berlino
Una casa diventata un rifugio sicuro in cui osservare l'eco di quanto accadeva nelle strade di Parigi nel 1968 ma non solo, con la fantasia anche durante i mesi più terribili dell'occupazione nazista e dei rastrellamenti. Una garbata occhiata sulla storia attraverso più generazioni, ironica e un po' inconsistente. La recensione di Mauro Donzelli.
Una presentazione in prima persona, un viaggio in un appartamento particolare, un rifugio, un luogo sicuro, La cache come dice il titolo originale francese di questo adattamento di un inconsueto libro di Christophe Boltanski che contribuisce alla narrazione della storia dell’ebraismo familiare in Francia, ma in chiave di commedia, partendo dalla rievocazione delle generazioni arrivate tempo addietro, passando per le persecuzioni naziste e il dramma dei rastrellamenti verso i campi e, soprattutto, almeno per questa storia, come gli anni successivi alla Seconda guerra mondiale hanno plasmato il contributo dei giovani a fenomeni come il 1968. Proprio dai giorni di quel maggio fatidico parigino, miccia che ha innescato il movimento in tutta Europa, inizia questo racconto, visto dal punto di vista di un bambino di 9 anni e del nonno, mentre la generazione di mezzo era in strada a conquistarsi una visione politica.
Insieme a loro due zii intellettuali e artisti, oltre alla bisnonna direttamente dalla migrazione ebraica da Odessa, con accento di ordinanza. La cache è un viaggio spensierato e fantasioso in un universo generazionale che rappresenta un secolo intero e doloroso, utilizzando la chiave del virtuosismo e della strizzata d’occhio, cercando però di non banalizzare troppo il contributo di quegli archetipi a quegli eventi. Perché si vola anche nel passato, nei mesi dei primi anni ’40 in cui uno spazio minuscolo all’interno del rifugio è diventato il luogo di protezione per fuggire da chi era in caccia di ebrei, o pronto alla delazione. E in questa carrellata di personaggi si affaccia anche il generale in prima persona, quel De Gaulle rievocato in una delle sequenze più divertenti del film, che è protagonista sia della liberazione, con la battaglia resistente della sua Francia libera, che della creazione di quel sistema semipresidenziale della Quinta repubblica in piena crisi durante il maggio ’68.
In dialogo fra le stanze chiuse dell’appartamento e il suo cortile, così tipicamente parigino, i rumori e le grandi manovre poche strade più in là innescano confronti e riflessioni fra il passato e l’oggi, mettendo in evidenza rievocazioni di famiglia che diventano a noi spettatori “neutrali” percorsi sociali che hanno caratterizzato decenni cruciali per la storia francese (ed europea). Il tutto senza piagnistei o pesantezze, con un garbo quasi casuale, o distratto, e in chiave di commedia.
Tentativo lodevole, sulla falsariga del romanzo autobiografico da cui prende ben più che solo uno spunto, ma che rende tutto un po’ inevitabile, in un canovaccio esile più nostalgico, come naturale parlando di memorie di famiglia, che pienamente problematico, come sarebbe meglio in memorie con un’ambizione più ampia. Rimane l’idea della trasmissione, così connaturata alla cultura ebraica, la testimonianza con cui sviluppare, fra genio e nevrosi, generazione dopo generazione, un percorso familiare identificabile, e pronto a dover interagire con una società non di rado ostile.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito