Conclave: la recensione del thriller con Ralph Fiennes
La fascinazione per il processo elettorale più antico e immutato torna in primo piano nell'adattamento del best seller di Robert Harris. Presentato alla Festa del Cinema di Roma, con un Ralph Fiennes ai massimi livelli insieme a un cast sontuoso. La recensione di Mauro Donzelli di Conclave.
Morto un papa se ne fa un altro. E volendo ci si fa anche un film, a sua volta fedelmente adattato da un romanzo di Robert Harris, gigante dello spionaggio e della narrativa storica. In questa linearità apparente, ordine che si ripete sempre uguale o quasi da secoli, si sviluppa un secco e appassionante thriller che evita troppi fronzoli e mette in scena una partita a scacchi politica, ben più che rapita illuminazione dallo spirito santo, fra le eminenze in rosso della Chiesa, anche nobili cardinali della recitazione. Il più papabile di tutti è il protagonista di Conclave, Ralph Fiennes, decano a cui è affidato dalla tradizione il compito di sovrintendere a ogni operazione di questo affascinante processo elettorale sui generis. Si parte da una camminata frettolosa per le vie notturne di Roma, prima di arrivare nell’appartamento dove già è stata dichiarata la morte del papa, per concludere poi con la fumata bianca e l’applauso della Piazza, liberando i cardinali elettorali dalla clausura nella Cappella Sistina.
Agli albori del genere letterario “giallo”, almeno così lo chiamiamo dalle nostre parti, era in gran voga il “delitto della camera chiusa”, con cadavere in una stanza e tutto sigillato dall’interno, qui i porporati vivono sigillati fra l'alloggio e la più magnifica cabina elettorale che esista, con le vibrazioni dall’esterno e le voci dei media lontane, mentre all'interno della camera chiusa esplodono anni di rivalità e alleanze, magari addirittura delitti. Come in ogni occasione, anche nel Conclave di Edward Berger, che si conferma dopo il convincente Niente di nuovo sul fronte occidentale, le intense sessioni di preghiera, collettiva o individuale, sono alternate da ben più prosaiche chiacchiere di corridoio e vere e proprie campagne elettorali sussurrate, in cui la disposizione nei vari tavoli durante i pasti e il cambiamento nel corso dei giorni e delle fumate nere può essere molto indicativa dello spirare dello spirito santo.
Insieme a Fiennes, ai massimi livelli in carriera, ci sono Stanley Tucci, preferito dei progressisti, il conservatore che vuole tornare al latino, Sergio Castellitto, insieme a John Lithgow e a Isabella Rossellini, nei panni di una suora silente ma non indifferente alle sorti della chiesa. La sceneggiatura, fedele con solo un paio di sapienti modifiche rispetto al romanzo di partenza, è di uno specialista come Peter Straughan, nominato all’Oscar per lo splendido adattamento de La talpa di Le Carré.
Il papa appena morto è amato, almeno dai fedeli, è un riformista che come tale si è fatto però molti nemici in curia, un leader che stava spingendo la chiesa verso una nuova rivoluzionare pauperistica. Sembra confermarlo l’apparizione segreta e a sorpresa, “in pectore”, di un cardinale sempre in prima fila per i poveri del pianeta, primate della chiesa di Kabul. Solo l’inizio di una ricostruzione che si segue in apnea, non tanto per esplosioni improvvise, ma grazie a una tensione che monta come una lenta e inesorabile marea. La ricostruzione della Cappella Sistina - quasi a grandezza naturale a Cinecittà - è notevole, così come costumi e marmi, i colori sgargianti delle tuniche e la cancelleria utilizzata per il voto. Fino a una conclusione che ci lascia perplessi, nel romanzo come nel film. Ma sono solo cinque minuti, quelli finali.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito