I Peccatori, la recensione: blues, blaxploitation e vampiri

16 aprile 2025
2.5 di 5

È un po' il Babylon di Ryan Coogler, questo ambiziosissimo e ipertrofico film, che racconta una storia ambientata nel Mississippi segregazionista degli anni Trenta per gettare un'ombra sul mondo di oggi. La recensione di I Peccatori di Federico Gironi.

I Peccatori, la recensione: blues, blaxploitation e vampiri

C’è davvero di tutto, in questo I peccatori.
C’è, innanzitutto, un ragazzino che è un asso della chitarra, un mago del blues. Si chiama Sammie, ma si fa chiamare Preacher Boy; perché suo padre è un pastore, e non è tanto contento che il suo ragazzo suoni la musica del diavolo. E tanto per non lasciare ambiguità, allora, Ryan Coogler lo veste e lo atteggia come Robert Johnson, il bluesman che secondo la leggenda vendette l’anima al diavolo in cambio del talento musicale; Johnson, che di quel ragazzo interpretato dall'esordiente Miles Caton poteva tranquillamente essere un coetaneo: il film è ambientato nel 1932, Johnson è morto nel 1938 a 27 anni appena compiuti, i conti tornano). A pensarci bene, quel ragazzo potrebbe essere proprio Johnson, se solo - vabbe’, lasciamo stare.
Poi ci sono i due cugini Sammie, Smoke e Stack, gemelli, due canaglie vestite come dandy, che hanno fatto ritorno nel Delta del Mississippi dopo del tempo passato a Chicago (con Al Capone, ci viene detto, casomai non lo capissimo) e che vogliono mettere su un locale tutto loro, tutto birra, whisky, vino, gioco d’azzardo e musica blues: la musica del cuginetto, ovvio, ma non solo (c'è anche Delroy Lindo che suona il piano). A interpretare i due gemelli-gangster, un solo attore, che è ovviamente Michael B. Jordan. Ma questa cosa non l'aveva già fatta Tom Hardy in Legend? Vabbe’, andiamo avanti.

Attorno a questi tre protagonisti, altri amici, altri musicisti, e poi donne, tante donne: la Annie che un tempo era stata la compagna di Smoke, esperta di magie e rituali voodoo (Wunmi Mosaku); Mary (Hailee Steinfeld), pelle bianca e cuore nero, il grande amore di Stack, che la lasciò andare perché ai tempi, lì dove vigevano le leggi Jim Crowe, quel matrimonio non s’aveva da fare; la giovane Pearline (Jayme Lawson), che mette gli occhi su Sammie e la sua chitarra e tirerà fuori una voce da incanto. Ci sono le donne e c’è anche il sesso, più nelle parole che nei fatti magari, ma le parole sono esplicite assai, con un’attenzione tutta particolare alla teoria e alla tecnica del cunnilingus.

C’è tutta una prima parte di film, che poi racconta in due ore e un quarto circa avvenimenti racchiusi in 24 ore, in cui si seguono Sammie, e Smoke e Stack impegnati nei preparativi per l’inaugurazione serale del loro juke joint, e il tutto sembra una sorta di gangster movie scanzonato, aperto alla commedia e pure a un pizzico di romanticismo, attento alla descrizione del sud, della comunità nera, magari con qualche accenno al razzismo dei bianchi e alle minacce del Klan. A pensarci bene, quasi una sorta di film della blaxploitation, in tutto e per tutto, però ambientato negli anni Trenta invece che nei Settanta.
Quando cala la sera, il sole tramonta e il locale di Smoke e Stack s’infiamma di musica, alcool e ormoni, parte pure un lungo e ardito numero da musical in piano sequenza (che a Coogler piace tantissimo, il piano sequenza, si vedeva anche prima di questa scena) che si apre al passato e al futuro e che nel suo dinamico furore sembra rispondere a quanto faceva Chazelle in Babylon, solo che nel Mississippi invece che a Hollywood.

Ma quando cala la sera, e il sole tramonta, ecco che alla porta del locale bussano i vampiri (bianchi): perché la musica del diavolo, che pure è musica, la musica che apre le porte sul passato e sul futuro e porta in dimensioni altre, è pur sempre la musica del diavolo. E quindi arrivano i vampiri, e I peccatori si trasforma in qualcosa di diverso, come se Dal tramonto all’alba fosse andato a sbattere forte contro Vampires di John Carpenter, e su quel che è venuto fuori dallo scontro Coogler avesse versato tantissimo blues, una spruzzata di folk irlandese (i vampiri li guida Jack O'Connell, che irlandese non è, ma vabbe') un po’ di southern gothic e, soprattutto un sacco di metaforoni confusi su razzismo, integrazione, convivenza e tanto altro.
Confusi, sì, perché la questione non è solo neri buoni contro bianchi cattivi (peraltro i vampiri, che come da copione debbono essere fatti entrare, entrano per via/colpa della bianca buona, ma pur sempre bianca), ma si complica un po’, e davvero non è chiaro quale sia la posizione “politica” di Coogler, se più vicina all’ideale di convivenza di Martin Luther King o al radicalismo di Malcolm X.

Che poi, a ben vedere, la questione politica non è l’unica cosa confusa, in questo I peccatori, che come ho cercato di spiegare, ha dentro tantissime cose, vuole essere tantissime altre, e si gira e si volta e si agita come posseduto; che se la tira tantissimo, che ha il coraggio e l’orgoglio e magari a tratti pure il fascino di chi se ne frega di fare le cose a modino e secondo le regole, che gioca coi formati e la pellicola per essere, anzi, per sbandierare di essere Cinema con C maiuscola.
C’è davvero di tutto, in questo I peccatori: troppo. Ma in fin dei conti, dalla sua, per davvero, il film di Coogler una cosa ce l'ha: la musica, il blues, il suo fascino torbido e torrido. Il blues e il cammeo finale, un po’ appiccicaticcio di uno dei suoi grandi, Buddy Guy, raccontato dentro a un tempio come il Checker Board Lounge di Chicago.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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