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Ritrovarsi a Tokyo, scontro di culture e l’amore di un padre: incontro con il regista Guillaume Senez

Il regista belga Guillaume Senez torna a parlare di paternità e torna a farlo dopo Le nostre battaglie con Romain Duris come protagonista. Una Tokyo affascinante e distante e una legge assurda che coinvolge ogni anno decine di migliaia di genitori e figli. Intervista con Senez.

Ritrovarsi a Tokyo, scontro di culture e l’amore di un padre: incontro con il regista Guillaume Senez

Un padre cerca la figlia da quasi dieci anni. Lo fa guidando un taxi ogni giorno, mentre per una legge tanto discussa quanto vecchia più di un secolo e mezzo, in Giappone non esiste l’affidamento congiunto e il primo genitore che “rapisce” un figlio o una figlia ha diritto alla custodia. Jay (Romain Duris) si aggira per la città in cerca della figlia Lily (Mei Cirne-Masuki), dopo la fine del matrimonio con una donna giapponese.

Dopo la storia di un uomo abbandonato dalla moglie alle prese con i figli e il lavoro, la coppia Guillaume Senez (regista) e Romain Duris, ottimo protagonista, torna a parlare di paternità con Ritrovarsi a Tokyo, appena uscito in sala per Teodora Film.

Dalla provincia francese alla metropoli nipponica, lontani dai grattacieli e dalla folla. Ne abbiamo parlato con il regista belga, in occasione dei Rendez-vous del cinema francese di Roma.

Ritrovarsi a Tokyo racconta un mondo molto contemporaneo, globale, in cui provenienze e lingue diverse vivono la quotidianità, ma in cui un granello nell’ingranaggio può amplificare l’incomprensione fra culture diverse

È un argomento molto complesso, ma al di là dei rapimenti di bambini, c'è un problema di integrazione. Lo scambio culturale è molto ricco, lo abbiamo vissuto anche noi stessi girando lì. È stato interessante vedere come lavoravano loro, trovare un'intesa culturale tra la troupe giapponese, quella francese e quella belga. Perché il film racconta proprio questo. È la storia di un francese che emigra in un paese più ricco, con un'altra cultura, religione e lingua. Non è sempre semplice, c'è sempre del razzismo latente. C’è l’inglese, che è la lingua internazionale, tutti lo parlano un po', poi il giapponese e il francese, si passa da una lingua all’altra. So che qui il film uscirà tutto doppiato in italiano, non so come faranno, ma sì, abbiamo cercato di raccontare anche questo scambio culturale, che passa attraverso la differenza di lingua e il modo in cui ci si capisce o meno, come a volte la lingua crea un'enorme barriera culturale.

C'è continuità tra Le nostre battaglie e questo film, in cui torna a raccontare di paternità, di un padre in una situazione complicata?

Sì, e anche il mio primo lungometraggio parla della paternità. Non so come mai. Ho tre figli, quindi sono papà anch'io e queste dinamiche che mi toccano profondamente, anche come spettatore. Come appassionato di cinema, quando vedo un film con una mamma e un papà mi commuovo molto. A volte mi vengono le lacrime agli occhi per una pubblicità. C’è qualcosa che mi colpisce. È vero che è così difficile realizzare un film, ci vuole tanto tempo, si subiscono tanti fallimenti, che se non è un argomento che ci parla davvero e ci coinvolge visceralmente, allora meglio lasciar perdere e fare qualcos’altro, un altro argomento o un altro lavoro. Sono dieci anni, nei primi tre film, che racconto la paternità, ho ancora cose da dire e sono pronto a parlarne a lungo, ogni volta parlando di un aspetto diverso. Abbiamo sentito di queste storie del rapimento di bambini, quando con Romain Duris eravamo in Giappone per l'uscita di Le nostre battaglie. È vero che c'è una sorta di continuità, e siccome avevamo voglia di rifare un film insieme ci siamo detti che sarebbe stato adatto. E allora, qualche anno dopo, ci siamo ritrovati a Tokyo.

Le nostre battaglie era molto dinamico, con tutti in movimento, anche nei dialoghi, nelle parole, in una tensione costante. Qui c’è una sensazione quasi di vuoto, con una Tokyo silenziosa, che si adatta anche all’assenza di emozioni manifeste dei giapponesi

È una questione di intenzioni e di come trasmetterla, di equilibrio tra forma e contenuto. C'era una forma essenziale e poi bisognava lasciare spazio ad altre immagini, suoni, in particolare alla musica. È la prima volta che ho lavorato con un compositore. Servivano momenti di respiro, l'argomento era molto più pesante rispetto al film precedente, da affrontare in modo più frontale. Al contrario di Le nostre battaglie, qui le persone non si commuovono nello stesso punto, c'è una linea narrativa piuttosto classica che porta al climax. È un altro modo di trattare la storia. Ma è vero che ogni volta la domanda è la stessa, come lo giriamo? È questa la regia. Ad esempio, qui ci sono molte scene nel taxi, un luogo chiuso, in cui dovevamo far evolvere il rapporto tra un tassista e la sua cliente in quello tra un padre e sua figlia. All'inizio l'inquadratura è su Jay, poi su Lily, si passa da uno all'altro e alla fine, poco a poco, sono entrambi nella stessa inquadratura. È sempre legato all'intenzione che vogliamo trasmettere e alla ricerca del giusto equilibrio.

Il film inizia rievocando l’immaginario del taxi notturno, all’interno di una Tokyo lontana da quella ormai abusata dal boom turistico di questi ultimi tempi

Volevamo evitare l'effetto cartolina, non volevamo filmare il disegno dell'onda, il gattino con la zampetta, il sake, il sushi e via dicendo, né volevamo filmare il Giappone come avrebbe fatto un giapponese, perché non avevamo questa presunzione. Abbiamo seguito il personaggio di Jay, è attraverso il suo prisma che vediamo le cose. Lui vive da quasi quindici anni in Giappone. Quindi inevitabilmente la sua non è la stessa Tokyo che vedremmo noi come turisti.

Con Romand Duris c’è ormai molta intesa, forse rappresenta bene la sua idea di paternità? Perché di nuovo con lui?

Romain è stato un bellissimo incontro umano e professionale. Lavora molto, basti pensare a quanto fatto con il giapponese. È una storia che abbiamo scoperto insieme, era fuori discussione lavorare con un qualcun altro, anche se ho voglia di lavorare con altri, per esempio di girare con una protagonista femminile. Se vedete i titoli di coda dei miei film, lavoro spesso con le stesse persone, sono molto fedele e ho un modo di lavorare particolare. Quando do la mia fiducia a qualcuno, la do per sempre.

Qual è questo modo particolare con cui lavora?

Non do i dialoghi ai miei attori. Sono scritti, ma gli fornisco invece delle situazioni, trasformiamo i dialoghi in didascalie, e i dialoghi li cerchiamo insieme. Facciamo una prima improvvisazione, poi affiniamo, parliamo, discutiamo, e alla fine arriviamo al dialogo, solo che così non l'hanno ricevuto, ma è venuto da loro e quindi c'è una forma di libertà, di spontaneità e soprattutto, dato che non sanno cosa dirà l'altro, sono costretti ad ascoltarsi e a guardarsi. È una cosa che mi piace molto, trovo noioso il cinema del campo e controcampo, in cui gli attori a un certo punto non si ascoltano più, magari non sono nemmeno più sul set e qualcun altro recita la battuta. Amo che sbaglino, o si interrompano a vicenda, ha molto a che fare con la vita. Perché? Perché faccio cinema che emoziona. Voglio che le persone siano toccate, commosse. E magari, in un secondo momento, riflettano su ciò che hanno visto. E l'emozione, per me, richiede che si creda in ciò che si vede.

È stato più complicato questo processo di condivisione dei dialoghi per il problema della lingua?

C’è una frase che dice, ‘la facilità è il talento che si ritorce contro di noi’. Diffido sempre della facilità. I giapponesi sono grandi lavoratori, e sapevano che cercavo la spontaneità. Quindi è stato abbastanza semplice. Romain ha dovuto prima imparare foneticamente il suo testo in giapponese molto bene. Eravamo immersi in quella cultura, andavamo a mangiare al ristorante, faceva la spesa, gli parlavano giapponese, la troupe era composta in maggioranza da locali, ha imparato molto velocemente delle frasi che gli hanno permesso di infondere un po' di spontaneità e di improvvisazione nel suo testo, cosa che mi piace molto. Lily invece...

È incredibile, ha una forma di purezza

È fantastica, l'abbiamo trovata a Parigi, quindi parla francese, anche se nel film non si nota molto, ma ha reso tutto più semplice perché potevamo coinvolgerla emotivamente. Sono riusciti a entrare in sintonia, c'era qualcosa che funzionava tra loro e hanno potuto improvvisare un po', perché il film racconta proprio l’incontro di studio fra un padre e una figlia che non si sono praticamente mai conosciuti. Si sono annusati un po' e poi poco a poco si sono trovati, ed è stato molto bello.

Racconta una situazione legale particolare, come l’assenza dell’affidamento congiunto. Lo spettatore non può che provare rabbia per questo sistema, non ha paura di essere accusato di una posizione in qualche modo anti giapponese?

A me piace quando il cinema mi mostra le cose come stanno. Ovviamente ci siamo documentati molto, incontrando molti papà e mamme vittime di questi problemi, anche molti giapponesi. Abbiamo parlato con giudici e avvocati, cercando di essere giusti rispetto a ciò che raccontavamo. Detto questo, il film uscirà in Giappone, vedremo come andrà. Non lo so. Ma il cinema ha bisogno di essere sovversivo, di mostrare cose che non funzionano. Si parla di un fenomeno di massa. Negli ultimi vent'anni sono stati rapiti più di tre milioni di bambini. Ogni anno in Giappone vengono rapiti tra i 150.000 e i 200.000 bambini da uno dei due genitori. E nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di coppie giapponesi. Quindi, in realtà, tutti lo sanno in Giappone.

È incredibile, il primo genitore che rapisce un figlio ha il diritto alla custodia

È una legge che risale alla fine del 1800. Il primo che prende il bambino ne ha la custodia. Non è mai stata messo in discussione, finora. Anche per questo penso che il film sarà ben accolto, perché se ne sta parlando. Stanno cambiando le cose, anche se non è ancora vinta. È un problema molto complesso, il governo è conservatore, poi c’è la questione giuridica, gli avvocati prendono una percentuale sugli alimenti, la polizia che non interferisce mai nelle questioni familiari. Ma si potrebbe riassumere in modo abbastanza semplice: c’è un governo molto conservatore che non vuole che le persone si separino, vuole che restino sposate. È semplice. Non importa che ci siano sempre più divorzi in Giappone, non sono lì per aiutare le persone. In pratica, è la politica dello struzzo. Anche da noi è così, in fondo. Basti pensare al Papa, per esempio, con il preservativo o l'aborto. Sono cose che conosciamo bene. Penso che questo riassuma bene la situazione in Giappone. Lentamente, ma inesorabilmente, le cose cambieranno. Non sarà un film a cambiare le cose, ma mi piace quando il cinema mostra la realtà.

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