Black Tea, una storia d'amore oltre le frontiere dell'intolleranza: incontro con il regista Abderrahmane Sissako
Una donna che abbandona la Costa d'Avorio per andare in una città cinese a imparare la cerimonia del tè. Una storia sulla tolleranza e la voglia di culture diverse di guardarsi con curiosità diretta dal regista candidato all'Oscar Abderrahmane Sissako. Lo abbiamo intervistato.

Una donna in abito da sposa, accanto il futuro marito. O forse no.
Siamo in Costa d'Avorio, in una cerimonia nuziale di gruppo. Ma la donna rimane in silenzio, non vuole sposarsi. Presto la ritroviamo a migliaia di chilometri di distanza, in una città del sud della Cina, Guangzhou, l'antica Canton. L'incrocio di culture diverse, lo sguardo di pura curiosità che porta a viaggiare verso un altrove, sono al centro del ritorno di Abderrahmane Sissako, regista candidato all'Oscar per Timbuktu, con Black Tea, presentato in concorso alla Berlinale. Una storia d'amore oltre le frontiere, un viaggio romantico dalle distese d'Africa alle cerimonie del tè in Cina, in uscita nelle sale per Academy Two dal 15 maggio.
Black Tea, racconta la storia di Aya, una giovane donna africana sui trent'anni, che decide di lasciare la Costa d'Avorio per raggiungere il quartiere africano di Guangzhou, in Cina, e crearsi una nuova vita. Qui inizia a lavorare in un negozio di tè, apprendendo tutti i rituali delle cerimonie cinesi. Ne abbiamo parlato con Sissako, nel corso di un'intervista via zoom dalla "sua" Mauritania.
Ci ha raccontato come è nata questa storia, in linea con il suo cinema sulle identità culturali e i legami con l'altro.
"Come sempre le mie storie sono nascoste sotto differenti strati, da cui poi le cose emergono in superficie. È la genesi per me di tutte le creazioni artistiche. Nel caso di Black Tea, chi conosce un po’ la mia filmografia ricorderà che in Aspettando la felicità c’è una scena con un cinese che cena con un’africana. Eravamo nel 2000, quindi venticinque anni fa, il che mostra che in Africa c’era già una piccola immigrazione cinese e asiatica che si sostituiva a una visione del continente spesso fatta di luoghi comuni. Le persone non conoscono questo aspetto dell’Africa, il fatto che sia anche una terra di accoglienza e immigrazione. Era importante per me raccontare a una parte del mondo come l’occidente che il viaggio si fa anche verso altri luoghi, per esempio l'Asia, che il mondo è in cambiamento perpetuo. È la storia del mondo e dell’umanità. Anche l’Italia è emigrata molto, per ragioni economiche. Una buona parte degli Stati Uniti è in qualche modo italiana, New York in particolare, così come l’Europa, specie la Francia. Gli italiani lì sono stati mal visti. Questa diffidenza da parte di tutte la società è una realtà. L’artista cerca, a modo suo, di raccontare il mondo. Ho cercato in Black Tea di raccontare alla base una storia d’amore, qualcosa di universale, dando la priorità sempre al cinema. Il racconto è al centro, per me, se fosse la politica avrei fatto un altro mestiere. Cerco di raccontare la donna, in generale, perché vedendo nel film Aya e Ying si somigliano un po’ nel loro destino. Sono due donne sole. Volevo evitare poi la caricatura dell’africana, cercando una proposta che risultasse universale".
Lei ama raccontare di identità culturali, e in questo film parla di uno sguardo nei confronti degli altri, una comunicazione non basata su interessi economici, oggi che si parla molto della nuova Via della seta e dei legami economici fra la Cina e l’Africa. Racconta qualcosa con radici nel passato, come la fascinazione per fabbricazione del tè, che porta a guardare all’altro con curiosità e non con diffidenza
La sua analisi è molto giusta e mi porta a dire che quando vediamo un africano a Torino, Roma o Parigi è l’immigrato che è venuto per lavorare, per ragioni economiche. Ma il viaggio è un fenomeno naturale umano, legato alla curiosità. Non lo si descrive mai come qualcuno venuto a scoprire com’è quella realtà. Aya si interessa al tè per interessarsi all’altro, alla sua identità, vuole imparare e creare dell’empatia verso quell’uomo, dicendo che al di là di lui è lì per la curiosità. Per questo ho usato l’esempio del tè. L’interesse immediato di un cinese o un africano che imparano la rispettiva lingua è legato al dire ‘voglio comunicare, interessarmi’. Un cinese di Guangzhou e una nigeriana possono parlare in cinese, è normale. Ho cercato effettivamente di parlare di quanto la cultura può costruire. Li-Ben, il giovane figlio del protagonista, si ribella nei confronti del rifiuto dell’altro legato alle vecchie generazioni, come quello dei nonni, contro cui il nipote si schiera. Ma emerge una nuova generazione, quella di Li-Ben, che pensa in maniera diversa ed è a loro che bisogna credere. Il rischio è la paura dell’altro, che crea dei luoghi comuni e problemi, invece di analizzare una società. La Cina è è stata chiusa, e in questo modo ha maturato un rifiuto di quanto non conosceva e veniva dall’esterno, ma accade in tutte le società. Non credo che la particolarità della Cina sia il razzismo. E in quella scena voglio proprio mostrare una Cina curiosa, con il nipote che risponde duramente ai nonni.
Il mercato di Guangzhou, coi i suoi negozi, in cui è ambientato il film, è molto affasciante, sembra quasi una bolla onirica sospesa nel tempo. Come mai ha scelto questa chiave visiva, con i colori scuri della notte e del negozio di tè?
Volevo condurre lo spettatore in un mondo che non conosce. Ma è reale, esiste. È la Cina, la fabbrica del mondo. Se andate sotto casa a comprare un bicchiere o una penna, sicuramente sono stati fatti lì. Un luogo di commercio come quello è costituito da una convergenza di persone che si ritrovano. E in quello ci sono i colori dell’Asia, quel sogno che è il proposito del film, per cui l’essere umano lo puoi rinchiudere all’interno di quattro mura, ma lo spirito no, come la curiosità di partire e di costruire qualcosa. Dire no alla società è impossibile, perché l’individuo solo non può lottare contro una società che lo schiaccia, che non vuole la differenza. C’è però una realtà immaginaria che lo permette. E la ricerca della libertà porta la protagonista a fuggire e ricercare tutti quei colori che rappresentano la ricchezza del cinema, la notte e i sogni, in un’ambiguità voluta che mostra un viaggio certo non facile.
Il suo film, con il suo sguardo umanista, ancora più oggi che quando venne presentato a Berlino sembra molto contemporanea, parlando di oggi, della comunicazione fra culture diverse, mentre nel mondo succedono cose che vanno sempre più in direzione opposta rispetto a quella che auspica in Black Tea.
È una cosa fondamentale, e come tale supera il cinema. È più facile diffondere e rendere popolare il cibo spazzatura piuttosto che quello sano. È tutto un po’ fast-food, anche la politica. Perché siamo nell'era del populismo, costruiamo sogni per chi è fragile, a cui diciamo che il loro problema è qualcun altro, che se non ci fosse quell'altro, tutto andrebbe bene. È il fondamento delle discussioni politiche in Italia e in Francia, dove oggi siamo sorpresi dall’emergere dell’estrema destra, ma questi estremi sono il terreno che abbiamo preparato da molto tempo. Anche altri popoli hanno sofferto di questo populismo in modo diretto o indiretto, e alla fine toccherà anche a loro. È come per la guerra in Europa. Se le guerre scoppiano altrove, prima o poi si avvicinano. La base assurda di tutto questo è la violenza radicata, così come l’economia di mercato o le armi. Le fabbrichiamo e dobbiamo comprarle. Le compriamo, ma perché? Ci deve essere anche una guerra. È terrificante. Quando oggi si parla di un accordo tra l'Ucraina e gli Stati Uniti per fermare la guerra, non sappiamo nemmeno cosa significhi. Non ha basi chiare. Ma anche il fascismo è arrivato così, in un momento in cui non avevamo guardato alle altre violenze che si stavano verificando in altri continenti. È chiudendo gli occhi che la violenza si è avvicinata poco a poco a noi.