Transformers: L'ultimo cavaliere - la recensione dell'ultimo capitolo firmato da Michael Bay
Un piede nel passato e un piede nel futuro della saga.
Con Optimus Prime partito per confrontarsi con i suoi creatori, sulla Terra i rimanenti Transformers vengono cacciati e terminati dai militari. Li difende per riconoscenza, come giustiziere solitario, Cade Yeager (Mark Wahlberg), separato dalla famiglia. Dopo aver incrociato il suo destino con quello dell'energica piccola orfana Izabella, verrà trascinato in un'avventura più epica del solito, in compagnia della professoressa Vivian Wembley (Laura Haddock) e dell'anziano sir Edmund Burton (Anthony Hopkins): la permanenza dei Transformers sulla Terra risale alla notte dei tempi, e la chiave per rispondere a una nuova minaccia è in quelle radici.
La natura di Transformers: L'ultimo cavaliere è ambivalente. Come quinto capitolo della saga mantiene intatti i pregi e i difetti della regia firmata Michael Bay: spettacolarità visionaria eseguita in modo ineccepibile sul piano tecnico, ma anche narrazione pretestuosa e poco coinvolgente su un piano che non sia quello primario dell'azione pura, di sequenza in sequenza. Questo quinto atto tuttavia protende verso il prosieguo e l'espansione dell'annunciato "cinematic universe" dei Transformers, supervisionato dallo sceneggiatore e produttore Akiva Goldsman, che qui inizia a intervenire sul copione con prime correzioni di rotta, pure apprezzabili. La saga si riaprirà ai bambini, quindi le figure femminili non sono più soltanto modelle di Victoria's Secret: la giovane Isabela Moner punta all'immedesimazione diretta delle teenager, mentre Laura Haddock è una presenza sexy con una recitazione all'altezza, meglio servita dalle battute e da un ruolo nella storia più attivo rispetto alle passate donne-modelle del franchise. Al di là del target, si apprezza poi in particolar modo l'esilarante caratterizzazione di Anthony Hopkins, ipergasato, volgare e strafottente, quasi una parodia dei ruoli da saggio distaccato che l'attore di solito ricopre: Bay si diverte molto nelle sue scene, vivificate pure dal delirio dell'automa-maggiordomo Cogman. Lo humor sarcastico sembra in generale più marcato, persino nell'introduzione ambientata all'epoca di Re Artù.
Il problema vero è che Bay fa fatica a conciliare il suo taglio usuale con quello che evidentemente la casa madre sta cominciando a impostare: tutto ciò che abbiamo elencato, anche se divertente, viene spento e riacceso come un interruttore, alternato con la solita retorica. Paradossalmente, i precedenti lungometraggi erano forse più noiosi e meno spiazzanti in alcune scelte, ma erano anche più sicuri: è difficile per esempio accettare che in un film di due ore e mezza (!) Izabella sia di fatto tralasciata dalla trama dopo la sua introduzione, così come dispiace che lo humor tenda a svanire in un crescendo che ha fretta di assomigliare a quello di tutti gli altri capitoli. I flashback storici potevano inoltre avere più spazio. La relativa maggiore ricchezza dei contenuti avrebbe potuto insomma avvantaggiarsi delle smodate durate di Michael Bay, ma purtroppo a volte il film sembra comunque girare a vuoto, come succedeva negli altri casi. E questa volta fa più male proprio perché s'intravedevano più potenzialità.
- Giornalista specializzato in audiovisivi
- Autore di "La stirpe di Topolino"