Il quadro rubato, la recensione: l'affascinante universo speculativo delle case d'asta
Le atmosfere sono ovattate come il mondo delle case d'asta, in una storia inusuale fra dramma morale e thriller, con una nota d'ironia. La recensione di Mauro Donzelli de Il quadro rubato di Pascal Bonitzer, in sala per Satine Film.
Il mondo del lusso ha mille sfaccettature, declinazioni più o meno esibite di capacità di spesa. Al suo interno c’è un filone dall’immaginario consolidato più che altro al cinema, in cui il godimento del “bello” e del “lussuoso” avviene all’interno delle mura di casa, spesso dopo un acquisto anonimo. Il mondo delle opere d’arte, delle case d’asta che gli danno valore e le fanno circolare è sicuramente affascinante, ma accompagnato da un alone di mistero e segretezza. È all’interno delle cassaforti e dei segreti luoghi per addetti ai lavori in cui si quotano e smerciano quadri d’autore, senza frontiere e globalizzato per definizione, che è ambientata questa intrigante storia, fra thriller e commedia sofisticata. Storia di formazione per la giovane stagista in una prestigiosa casa d’aste, Aurore (Louise Chevillotte), e in parallelo della crisi di mezza età del suo capo, André (Alex Lutz), banditore di successo, ormai molto benestante dopo un’infanzia marginale.
Il tono de Il quadro rubato, fin dalla prima scena, si configura come particolare, fatto di ironia trattenuta e personaggi goffamente a disagio nell’indossare i loro abiti, letteralmente ma anche socialmente. A partire da Aurore, mentitrice seriale quasi inevitabile, all’interno di uno sguardo divertito nel mondo dell’arte, in cui Pascal Bonitzer immagina il dietro le quinte di un fatto reale, il ritrovamento nel 2004, a casa di un giovane operaio della periferica Mulhouse, al confine con Svizzera e Germania, di un celebre quadro di Egon Schiele, I girasoli, sparito nel 1939 durante le spoliazioni naziste dell cosiddetta “arte degenerata” voluta in prima persona da Hitler, “dall’alto” dei suoi studi falliti di Belle Arti.
È André, nel film, a ricevere una lettera misteriosa che annuncia il ritrovamento. All’inizio è a dir poco scettico, dall’alto della sua spocchia e della sua collezione di orologi di lusso, ma poi un viaggio cominciato controvoglia lo porta a convincersi che in un contesto a dir poco bizzarro, appeso nel piccolo salone di una casetta di periferia, si trova veramente il capolavoro di un autore iconico, morto a soli 28 anni nel 1918 per la terribile influenza spagnola. A quel punto inizia la parte più thriller che diventa quasi spionistica della vicenda, con il coinvolgimento degli eredi del possessore originale del quadro, più di una casa d’aste senza troppi scrupoli e una possibile quotazione di qualche decina di milioni di euro. Basti dire che sarà il ventenne operaio, proprio colui il quale avrebbe più bisogno di soldi e viene da un retroterra più modesto, a dimostrare un cristallino spessore etico, un rispetto di valori morali che fra le chiuse stanze dei collezionatori e dei loro papponi non sanno propriamente cosa siano.
Il quadro rubato affronta tematiche anche molto serie, flirta con un passato drammatico che cambiò i destini di tante persone, ma senza prendersi troppo sul serio, mantenendo un piacere giocoso nel doppio gioco e nell’intrecciare false piste. Svetta un personaggio di contorno, ma cruciale, la vera tessitrice di destini e manipolatrice a fin di bene di personaggi fragili e in crisi. È l’ex moglie di André, Bertina, la sempre impeccabile Lea Drucker, che interviene nei momenti giusti con un carisma sempre risolutorio messo al servizio di questa variazione con brio, senza momenti di stanca, che si vede con piacere e simpatizzando con i protagonisti, per cui questa possibile vendita milionaria diventa l’occasione per ridare un’organizzata alla vita personale, magari regalando qualche barlume in più di felicità e, persino, di amore.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito