Presence, la recensione del film: Steven Soderbergh e il fantasma del cinema
Instancabile e intelligente come al solito, il regista americano gira il suo primo horror, sfruttando un topos abusato come quello della casa infestata per una riflessione teorica sul cinema e lo sguardo. La recensione di Presence di Federico Gironi.
Steven Soderbergh è intelligente, curioso, appassionato. È stato uno dei primi a pensare a un cinema diverso - produttivamente, esteticamente, ideologicamente - dopo l’avvento del digitale, e dello streaming. È un cinefilo vero, un vero amante del cinema, che rifugge saggiamente dall’abusata retorica della sala (perché certo che la sala va bene, e serve, ed è fondamentale, ma c’è modo e modo di affrontare la questione). È uno che con tutto quello che ha alle spalle in termini di film e serie realizzati, cerca ancora di fare non dico lo sperimentatore, ma comunque quello che mira a una certa idea di avanguardia. E tutto questo è perfettamente confermato anche in Presence.
Come spesso accade coi film di Soderbergh, Presence è due film in uno: è il film che è nell’apparenza e nella superficialità della sua trama e delle sue vicende, ed è il film sul quale si può teorizzare, che manda in brodo di giuggiole tutti quelli che guardano al cinema con occhio intellettuale, critico, accademico, che parlano di immagini, di film sul corpo e tutte quelle cose lì.
Va da sé che le due cose dovrebbero e potrebbero andare sempre di pari passo, e mai l’una sovrastare del tutto l’altra, e che il cinema migliore in assoluto è quello che è in grado di proporre e reggere questo equilibrio, ma nel caso di Presence penso si possa dire senza troppe ambiguità che il primo film, quello apparente e evidente, è discreto e funziona, ma che il secondo è talmente evidente - senza però risultare spocchioso o intellettualista - che quel primo se lo mangia del tutto.
Andiamo per gradi. Sappiamo bene tutti che la grande intuizione di Presence è quella di raccontare una storia risaputa, quella di una famiglia che si trasferisce in una casa infestata da un fantasma, dal punto di vista - fisico, anche - di questa, appunto, presenza. È attraverso l’ininterrotta soggettiva di questa presenza che quindi conosciamo i protagonisti e la loro storia: c’è una ragazza, Chloe, che è depressa per la morte di un’amica, che ha smesso di respirare nel sonno dopo aver assunto della droga; c’è suo fratello Tyler, campione di nuoto, ansioso di piacere al prossimo, poco gentile nei confronti di questa sorella un po’ stramba; c’è una madre ruvida e decisionista che ha un debole dichiarato per il figlio maschio; e c’è un padre che ha la pazienza di Giobbe e cui andrebbe fatto un monumento da parte di tutti i padri e i mariti.
Chloe, che è sensibile, è la prima che si accorge che in casa c’è qualcosa, ma all’inizio nessuno le crede, e poi, anche quando le credono, questa faccenda passa quasi in secondo piano, e Chloe stessa pare distratta da una sorta di relazione clandestina che inizia con un amico “fico” del fratello.
Dal punto di vista di questo primo film, del Presence superficiale, chiamiamolo così, le dinamiche familiari sono quelle che contano, anche perché si capisce da subito che la presenza - che forse è il fantasma dell’amica morta di Chloe, forse no - non è maligna né aggressiva, e che anzi cerca di tutelare Chloe quando ce n’è bisogno. E se è vero che forse il canovaccio di David Koepp, sceneggiatore del film, è un po’ debole, blando nel tratteggiare drammi, traumi e conflitti, e non esattamente spaventoso, c’è da dire che Soderbergh è bravissimo a usare la soggettiva per dare, anche nella banale quotidianità di certe scene, un senso di costante inquietudine nello spettatore. E qui, però, si apre tutto il discorso relativo al secondo Presence, al Presence teorico, se mi passate il parolone.
Perché percepiamo lo sguardo della presenza, la soggettiva ininterrotta che costituisce l’immagine del film di Soderbergh, figlia dello sguardo di una presenza che rispetta curiosamente - ma a pensarci bene nemmeno troppo - le leggi della fisica, sale e scende le scale e tutto il resto, come inquietante? Certo, è perché l’impressione è quella per la quale questa famiglia e questi personaggi vengano costantemente spiati da qualcosa di soprannaturale, di misterioso, che potrebbe anche improvvisamente rivelarsi una presenza maligna. Ma c’è di più: un di più che va legarsi direttamente con questa evidenza. Un di più che è in realtà chiaro fin dall’inizio del film, dalla sua primissima inquadratura ma che si rivela pienamente dopo qualche minuto, quando a forza di seguire i personaggi, Chloe e tutti gli altri, per degli istanti significativi quella che è comunque chiaramente una soggettiva, la soggettiva della presenza, diventa in qualche modo invisibile e ci sembra di assistere alle azioni dei protagonisti in maniera quasi oggettiva, come in un film “normale”.
Ecco che quindi Soderbergh, sornione e soave, abilissimo e fluido nel muovere e gestire la macchina da presa, ci ha fatto la sua dichiarazione teorica: la soggettiva della presenza, quella che ci mostra fin dal primo minuto i protagonisti di questo film e ci racconta implicitamente le loro storie, le loro psicologie, le loro relazioni e le loro crisi, altro non è che il cinema stesso, dispositivo generatore di fantasmi che questa volta diventa fantasma a sua volta.
Ma c’è ancora di più: perché questa soggettiva, che è la soggettiva della presenza, ma anche il cinema stesso, diventa quindi (e necessariamente, e senza via di scampo) la soggettiva di noialtri spettatori che guardiamo il film, che spiamo i protagonisti, come tanti voyeur, come ci ha raccontato Hitchcock tanti anni fa con La finestra sul cortile e ancora di più con Psycho. Questi protagonisti, certo, ma anche quando guardiamo un film, un film “normale”, cos’altro facciamo, se non spiare le vite e le storie dei personaggi? Cos’altro siamo, se non le presenze, i fantasmi che osservano coi loro occhi, soggettivamente, le vite degli altri?
Il cinema ci ha insegnato a guardare i fantasmi - delle immagini, delle storie, del desiderio - che si muovono sullo schermo. Soderbergh ribalta la questione: i fantasmi siamo (anche) noi che guardiamo, che siamo diventati puro cinema, che col nostro instancabile guardare abbiamo abbattuto ogni barriera. Tanto di cappello.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival