Havoc, la recensione: Tom Hardy dolente e furioso nel brutale action di Gareth Evans
Il regista gallese di The Raid torna a proporre la sua visione radicale dell'azione e della violenza, in un post-noir che pare rispondere per le rime alla saga di John Wick. La recensione di Havoc di Federico Gironi.
“Wrong place, wrong fuckin’ time”. Sono parole di Tom Hardy, anzi del suo personaggio, Walker, detective della omicidi di una città americana che somiglia tanto alla Gotham di Joker, con giusto in più una spruzzata della L.A. di Blade Runner e della Sin City di Frank Miller.
Nel posto sbagliato al momento sbagliato ci sono finiti un ragazzo e una ragazza, pesci piccoli del mondo criminale finiti in un giro più grande di loro, e incastrati per la morte di un boss della mala cinese. Da quel momento vivono in fuga: dalla polizia, dalla spietata madre del boss in cerca di vendetta e dai suoi mille sicari, da un gruppetto di sbirri corrotti che sono i veri assassini e non vogliono testimoni scomodi.
Ovviamente sulle loro tracce c’è anche Walker, che li vuole proteggere: non perché sia uno stinco di santo, tutt’altro, ma perché il padre del ragazzo in fuga è un pezzo grosso cittadino corrotto fino al midollo, per cui Walker ha dovuto fare lavori sporchissimi, e che con quest’ultima missione vuole tirarsi fuori da tutto.
Fin qui l’intreccio, che conta e non conta, che magari ha qualche buco, e soprattutto nelle sue declinazioni e diramazioni rischia di farsi farraginoso. Quello che conta, in Havoc, tutto sommato è ben altro. Contano un mondo e un personaggio, e ancora di più uno stile. Che magari può non piacere, ma che stile è sicuramente. Il mondo è quello di un post-noir stilizzato e fumettistico, ma al tempo stesso ruvido e dalla fisicità opprimente e disturbante, pervaso dal male e dalla corruzione; il personaggio è quello di un Hardy fatto apposta per la parte, massiccio e dolente, che borbotta frasi taglienti prima di usare i muscoli e il ju-jitsu e le armi di fatto o improvvisate per spaccare teste e far fuori i nemici. Uno che deve fare i conti con i troppi errori del suo passato, e che più di una via di fuga cerca una possibile espiazione e che non esita a lottare su tre fronti - oltre che su quello interiore - per cercare di ottenerla.
E poi c’è lo stile. Che è quello di Gareth Evans, del Gareth Evans di The Raid, e chi ha visto The Raid (1 e 2, sono su Prime Video) e avuto esperienza della furia inarrestabile del suo cinema d’azione, già può capire cosa s'intenda.
Havoc parte subito a mille all’ora, tanto per sgombrare il campo da ogni equivoco.
A mille all’ora lungo le strade di quella città senza nome, con l’inseguimento di un tir da parte di alcune volanti della polizia. C’è della CGI in eccesso, è vero, e magari si rimane un po’ spiazzati, ma la visione di Evan, pur dentro un movimento incessante, caotico e rutilante, è sempre ben chiara.
Anche quando poi il film sembra rallentare, e prendere quella che pare una sorta di indolenza esistenziale messa addosso al personaggio di Walker, ci si accorge che invece non si sta rallentando quasi per nulla, e la macchina da presa non sta ferma un attimo, e l’esplosione di azione, e di violenza, è dietro l’angolo.
Non è solo violento, Havoc. Non è solo spettacolare nel metterla in scena, quella violenza. Havoc è brutale, spietato, che si tratti di armi automatiche, tubi innocenti, fucili a pompa, revolver vecchio stile o affilati machete. Il body count è altissimo, il numero dei proiettili sparato probabilmente inaffrontabile. Ma la brutalità in sé non è un pregio, e anzi potrebbe finire per l’essere considerata un difetto, se non fosse la qualità delle immagini e della messa in scena di cui Evans è capace. Come in The Raid e per certi aspetti più che in The Raid. Certo, non è roba per palati fini o per sguardi e stomaci delicati, ma per gli appassionati del genere, c’è di che divertirsi.
Da questo punto di vista ci sono due scene madri notevolissime: la prima in una discoteca, circa a metà film, la seconda nel finale, ambientata dentro e attorno una vecchia baracca isolata che era il rifugio di Walker. E sono quelle dove davvero ci si chiede come abbia fatto Evans a mantenere il controllo di tanto disordine ipercinetico.
Ma non è che Havoc sia un film che attorno a quelle scene fa il vuoto: un po’ perché scontri, spintoni e spari non mancano quasi mai, un po’ perché è un film che veste quella brutalità e quell’azione di un abito pesante e cupo, grondante pessimismo e disperazione, tanto estremo quanto lo sono l’azione e la violenza.
Evans ha chiaramente pensato Havoc come alla reazione a un genere d’azione contemporaneo - quello che per intenderci è sintetizzato nella saga miliardaria di John Wick - che prende le mosse dal cinema che il regista ha sempre amato e che ha messo in scena all’inizio della sua carriera, ma che ha astratto e omogeneizzato gli ingredienti più ruvidi e magari sgradevoli della ricetta originale.
La cucina di Evans è quella che è: niente sofisticazioni, sifoni, riduzioni, ma ingredienti e preparazione della tradizione più rustica. Viva la trattoria di Evans.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival