Una Figlia: la recensione del film di Ivano De Matteo con Stefano Accorsi
Ivano de Matteo continua la sua indagine sulla famiglia e, dirigendo Stefano Accorsi e Ginevra Francesconi in Una figlia, si conferma regista rigoroso, sensibile e attento. La recensione di Carola Proto.
Si intitola semplicemente Una figlia il nuovo film di Ivano de Matteo, e in quell'articolo indeterminativo si coglie immediatamente il senso di un racconto che vorremmo ci riguardasse da lontano e che invece è tristemente universale e quindi vicino, molto più vicino di quanto si possa immaginare. Del resto il male, come diceva Hannah Arendt, è banale e spesso legato al caso e alle coincidenze beffarde della vita, che alla fine ci porta dove vuole lei, anche se ci nascondiamo dietro a un desiderio di autodeterminazione che in fondo non vorremmo avere, perché è più comodo che ci sia qualcuno in grado di decidere per noi. Sofia, che ha 17 anni e detesta la giovane compagna di suo padre, di certo non sceglie di macchiarsi di un reato gravissimo che la cambierà per sempre. Piuttosto si viene a trovare nel posto sbagliato nel momento sbagliato, e succede che un gesto impulsivo la catapulti in un carcere minorile, microcosmo che riproduce, di solito in peggio, le dinamiche sociali e anche familiari.
La famiglia, lo sappiamo, è una magnifica ossessione per De Matteo, un sistema complesso che si regge su un equilibrio molto spesso precario, talmente precario che, anche quando è solida e amorevole, non è mai al riparo dalle tragedie. Succedeva ad esempio ne I nostri ragazzi, di cui Una figlia è un sequel ideale, e anche in Mia. La sfida, stavolta, era tuttavia più difficile, perché portare lo spettatore dalla parte della vittima è facile, mentre fare in modo che si affezioni al carnefice è una missione quasi impossibile. Ivano De Matteo però ci riesce, aiutato da una sceneggiatura solida scritta insieme alla compagna Valentina Ferlan. Il fatto è che i loro figli non sono tanto distanti anagraficamente da Sofia, e quindi la domanda continua ad essere: cosa faresti se accadesse a te? Noi potremmo rispondere che preferiamo non pensarci, ma il cinema di De Matteo, che ci piace definire un cinema del rigore, non è solito eludere i problemi. Ci sbatte contro, per osservare le reazioni di padri, figli, mogli e mariti di fronte alle sollecitazioni negative del destino. La sua macchina da presa, nel film, è ora per Sofia ora per suo padre Pietro, che però diventa un personaggio secondario perché l'intento regista è parlare di un cammino di riparazione e portarci dentro a un istituto penitenziario per minori dove una diciassettenne diventa in fretta una donna adulta, perché niente ci fa crescere più del dolore. Per fortuna il dolore alla fine si trasforma, lasciando nuovamente entrare la vita. Per questa ragione, Ivano De Matteo sta bene attento a non indugiare sulla tragedia che colpisce la giovane protagonista, né cede agli stereotipi del filone carcerario. Il regista preferisce seguire di nascosto i suoi personaggi, il che non significa spiarli con morbosa curiosità ma sorprenderli mentre vacillano o escono dal limaccioso fiume dei sensi di colpa, in cui rischiano di annegare fin quando una mano non li tira fuori dall'acqua fangosa.
Si vede che dietro a Una figlia c'è un lungo e meticoloso lavoro di documentazione, l'acquisizione di un know how di cui il film non fa mai sfoggio ma che uno spettatore attento potrà cogliere nei rumori del carcere, a cominciare da una cella chiusa. De Matteo cerca e trova la verità anche negli stati d'animo, e lo fa anche attraverso l'uso della pellicola, che giudica fondamentale per la sua capacità di percepire la luce esattamente nello stesso modo dell'occhio umano e di rendere ancora più vivi i volti dei personaggi. Per buona parte del film, il regista ci porta in carcere con Sofia, che Ginevra Francesconi interpreta con grande intensità e straordinario controllo, lasciando intravedere il passaggio da ragazzina a donna a madre. Alla sua implosione il film contrappone l'esplosione di Pietro, che si muove fra accettazione e rifiuto, rabbia e amore genitoriale, e questo perché Una figlia è anche il diario emotivo di un padre che non riesce a smettere di essere un padre e che non capisce per quale ragione, all'interno di una famiglia che non è disfunzionale o borderline, possano accadere cose tanto terribili. Al personaggio il film affida il compito di insegnarci che le ferite pian piano si rimarginano e che dopo il disastro possono arrivare la pace e il perdono. Solo un attore attento poteva restituire senza affettazione una simile pluralità di stati d'animo, rendendo credibili rabbia e disperazione, affetto e tenerezza. Stefano Accorsi ci riesce molto bene e si abbandona con generosità al ruolo e alla disperazione di chi arriva a dire: "Mia figlia non c’è più".
Attenzione, però, Una figlia non è un grido di sofferenza e basta. Preferiamo considerarlo un grido di speranza e insieme il diario di una rinascita. Questa rinascita - ci avverte il regista - è possibile soprattutto grazie a quegli educatori ai quali forse non viene riconosciuto fino in fondo il merito. Insieme a pochi altri, appartengono a l'esiguo numero di individui e lavoratori che al risparmiarsi preferiscono il dare qualcosa in più.
- Giornalista specializzata in interviste
- Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali