Interviste Cinema

Vincenzo Bugno riflette sui suoi primi tre anni alla direzione del Bolzano Film Festival Bozen

Sta per concludersi la 38ª edizione del Bolzano Film Festival Bozen ed è l'occasione per parlare dell'evoluzione di questa manifestazione con colui che ne ha preso le redini nel 2023.

Vincenzo Bugno riflette sui suoi primi tre anni alla direzione del Bolzano Film Festival Bozen

Sono ormai 38 anni che il Bolzano Film Festival Bozen promuove opere cinematografiche europee e internazionali, inserendo nel programma workshop, masterclass, incontri con registi e professionisti del settore. Il 13 aprile 2025 anche questa edizione terminerà, assegnando una serie di premi destinati ai lavori che hanno maggiormente toccato la giuria ufficiale, il pubblico e i giovani giurati. Ma è il percorso di rinnovamento intrapreso tre anni fa che vogliamo approfondire, parlandone direttamente con colui che ha scelto di trasformare la manifestazione del capoluogo altoatesino, allargandone gli orizzonti geografici e permettendo lo scambio culturale e il dialogo tra diverse realtà linguistiche e culturali.
Vincenzo Bugno respira cinema da sempre, fin dai tempi dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, la città dove è nato, e che lo ha portato al mestiere di giornalista cinematografico, autore TV, consulente per diverse entità della settima arte (come il Festival di Locarno). Vive a Berlino, dove dirige il World Cinema Fund nell’ambito della Berlinale, ed è al suo terzo incarico come Direttore Artistico del Bolzano Film Festival Bozen.

Sta per concludersi il tuo primo triennio a Bolzano. In questo percorso, Vincenzo, che cosa hai lasciato andare e che cosa hai guadagnato rispetto al lavoro di selezione e direzione del Festival?
Siamo partiti da un festival già con un suo profilo molto chiaro, profondamente rivolto verso tutto ciò che succedeva al di là del Brennero. Quindi molto attento ai Paesi di lingua tedesca, e certamente anche alla realtà locale. Questo va bene, è legittimo, però forse quello che ci interessava era un festival in cui il confine, se oltrepassato, ci permettesse anche di guardare più in là. Abbiamo considerato il confine come opportunità, come allargamento, come arricchimento. Per cui abbiamo cercato di individuare delle realtà parallele dove multiculturalità, minoranze etniche e linguistiche potessero essere importanti.

Spagna e Brasile sono state le prime tappe del tuo viaggio da direttore...
Il primo anno abbiamo iniziato con un programma dedicato alla Galizia, che è una terra spagnola di grande cinema. Il secondo anno l’abbiamo dedicato al cinema indigeno brasiliano, spingendoci più in là e spostandoci anche in un contesto storico molto più complesso. Considerando che quelle che in Brasile, in questo momento, sono minoranze etniche e linguistiche, forse un tempo — prima della colonizzazione — non erano minoranze, ma una maggioranza legata alle culture originarie dell’America Latina. D’altra parte, abbiamo conservato questo profilo ispirandoci anche ai Paesi dell’arco alpino. Il primo anno, ad esempio, abbiamo avuto in concorso un film di produzione austriaca, girato in Ucraina e Moldavia da due registi argentini.

Di fatto questo concetto lo hai applicato ad ogni sezione del Festival, giusto?
Sì, abbiamo numerosi esempi di questo tipo. Anche perché io credo — e mi affascina — nella curiosità per culture cinematografiche lontane dalla nostra, o comunque fuori da Hollywood. In concorso abbiamo anche produzioni italiane ispirate a questo modello culturale, come un film d’animazione sardo parlato in sardo. Abbiamo un film di produzione completamente italiana, parlato in tagalog, perché tutti i protagonisti sono filippini. E abbiamo anche un film altoatesino che ci racconta una storia altoatesino-cubana. Questo è il tracciato del Festival che ho definito — e credo sia una descrizione valida — come “assolutamente internazionale, assolutamente locale.”

È un alto valore identitario quello che può offrire il cinema, quando gli si dà questa opportunità. I festival sono mondi paralleli, ed è fondamentale che mantengano intatto il loro compito, in contrapposizione ai numerosi film e serie che inondano i servizi streaming.
Il discorso sull’identità credo sia molto complesso e può essere un enorme arricchimento, ma anche una trappola. Nel senso che, ad esempio, io vivo da trent’anni a Berlino, però sono veneziano. Parlo il veneziano. A volte penso in veneziano, anche se sono in Tagikistan. Però quando sono a Venezia, dopo quattro giorni non ne posso più. Ma sarebbe lo stesso se fossi di Varese, di Sondrio o di Bordeaux. Credo sia fondamentale cercare sempre ciò che è diverso da noi, per non auto-soffocarsi. Ovviamente, però, la ricerca dell’identità — o l’individuazione dell’identità — è un percorso a volte quasi obbligatorio, specialmente in contesti culturali, geografici e politici ai quali questa identità viene legata. È lì che si pone maggiormente il concetto di identità.

Questo pensiero vi ha portato, dunque, a decidere quest’anno di fare un focus su Taiwan.
È una grande cultura cinematografica, quella di Taiwan. Ci sono state varie ondate per cui il cinema taiwanese ha cominciato ad essere conosciuto dal grande pubblico grazie a nomi come Hou Hsiao-hsien, Edward Yang e Tsai Ming-liang. In questo contesto abbiamo pensato di offrire al pubblico una selezione di film assolutamente necessari, cercando di descrivere il cinema taiwanese contemporaneo, che spesso si confronta con la costruzione dell’identità nazionale. Taiwan è un Paese fragile, minacciato, che ha costruito una propria identità anche linguistica grazie alle ondate migratorie dalla Cina popolare, e ancor prima durante il secolo scorso. Si parla di una specie di museo linguistico, un’esposizione dove convivono minoranze indigene e lingue indigene. Sono rimaste tracce di giapponese dovute all’occupazione coloniale. Taiwan è un esperimento di costruzione identitaria che si riflette anche nel cinema. E questa costruzione, o nevrosi di costruzione identitaria, forse si affievolisce man mano che il Paese si democratizza.

Parliamo di Taiwan in questo caso, ma il discorso rimane speculare nei confronti di molte altre regioni del mondo, incluso l’Alto Adige.
Certo, è assolutamente fondamentale ed è il nostro punto di partenza. L’Alto Adige è un territorio dove gli abitanti di lingua tedesca, dopo la Prima guerra mondiale, non sono stati necessariamente avvantaggiati dalla “colonizzazione fascista” o da alcune scelte politiche nazionaliste che li hanno svantaggiati. Già la struttura topografica di Bolzano è estremamente interessante: c’è la città, il centro storico, poi si attraversa un ponte e ci si trova in un paesaggio architettonico che potrebbe sembrare Latina, con un arco di trionfo e i fasci littori. Questo ha portato ovviamente a vari contrasti.

Confermi, come si dice, che il giorno dopo la chiusura di un festival, il direttore inizia a lavorare all’edizione successiva?
Assolutamente sì. È così per tutti i lavoratori di festival, che siano piccoli, grandi o medi, se si ha l’ambizione, la voglia, la necessità di trovare un profilo coerente. Penso che nel corso di questi tre anni questo profilo l’abbiamo trovato, permettendoci anche alcune divagazioni e, comunque, cercando sempre di andare oltre il confine, avendo le minoranze un po’ come modello e pensando soprattutto al cinema contemporaneo. Credo sia importante far vedere i grandi nomi del cinema contemporaneo, che spesso, per un grande numero di spettatori, ancora non lo sono.

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