L'eternauta, recensione della serie Netflix: black-out, apocalisse e paranoia tutte da godere

05 maggio 2025
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Da non perdere i sei episodi della serie argentina con Ricardo Darin che adatta il capolavoro a fumetti di Héctor Germán Oesterheld e Francisco Solano López. La recensione di L'eternauta di Federico Gironi.

L'eternauta, recensione della serie Netflix: black-out, apocalisse e paranoia tutte da godere

"Lo viejo funciona!", esclama Alfredo Favalli, detto Tano, uno degli amici del protagonista dell'eternauta, Juan Salvo. Ha scoperto infatti che al black out che ha lasciato al buio Buenos Aires, tutta l'Argentina, e probabilmente il resto del mondo, e che sembra aver messo fuori ogni apparecchio elettronico, possono resistere le apparecchiature di una volta. Le vecchie automobili, quelle senza troppi automatismi e basate sulla meccanica, e le vecchie radio. Per coincidenza, o forse no, L'eternauta ha debuttato su Netflix il giorno dopo il black out che ha spento per un giorno intero Spagna e Portogallo, e sarà un caso o forse no che ho letto da poco il post di un'amica che raccontava come l'unica cosa che funzionasse, nel mezzo di quel black out, era una vecchia radiolina a transistor, di quelle a batteria e con tutta l'antenna tirata su.
Le cose vecchie continuano a funzionare. Che certo, ha anche un significato metaforico nella serie tratta dal capolavoro a fumetti di Héctor Germán Oesterheld e Francisco Solano López, ma questo è un'altro discorso, che ora ci porterebbe troppo lontano (ma ci torneremo).

Il punto è il black out, quello che in Spagna e Portogallo ha regalato a milioni di persone in preda all'ansia un assaggio di apocalisse a costo zero, e che in L'eternauta, invece è il prodromo di un'apocalisse vera e propria, perché dopo il buio arriva la neve, una neve silenziosa e assassina, mortale, venefica. E così Juan, Tano e gli altri amici, impegnati nella loro settimanale serata di carte (non il poker come gli yankee, ma il trucco, gioco di carte argentino noto a alcuni anche in Italia) si trovano così a dover affrontare la sfida per la sopravvivenza, tra ex mogli e figlie da recuperare in giro per la città, vecchi amici che diventano nemici, isole e case da raggiungere. Che poi l'apocalisse dell'eternauta sia dovuta in realtà a un'invasione aliena, come diventa chiaro dal quarto dei sei episodi in poi, quando vengono rivelate ai protagonisti e allo spettatore creature insettiformi che paiono uscite da Starship Troopers, poco conta. O forse conta un po', specialmente per quello che ci aspetta, o ci dovrebbe aspettare, con l'arrivo della seconda annunciata stagione della serie che dovrebbe concludere tutto un arco narrativo.

L'eternauta: Il trailer ufficiale del serie Netflix

Conta, più di ogni altra cosa, che Bruno Stagnaro - autore della serie - è riuscito in un piccolo grande miracolo, quello di adattare un fumetto complesso e stracarico di significati politici (in estrema sintesi, era un fumetto, quello di Oesterheld e Solano López, che anticipava gli orrori della dittatura di Videla, e lo stesso Oesterheld finì desaparecido) e di renderlo avvincente anche per lo spettatore che non lo conosca, adattandolo al presente nella forma e nei contenuti.
Non è solo questione di valori produttivi altissimi, che dovrebbero far pensare un po' a certi autori o produttori di casa nostra, per esempio, né del fatto che Ricardo Darín - il più noto e bravo attore argentino, uno che è come se fosse Favino, Bentivoglio e Servillo tutti in uno - sia un interprete eccezionale, e che chi gli sta a fianco non sfigura affatto: è che L'eternauta utilizza benissimo i talenti tecnici e artistici e il budget che ha a disposizione per raccontare una storia, dei mondi, degli scenari che - citando non solo il fumetto da cui tutto è partito, ma anche The Road di McCarthy, i film di zombie di Romero, The Mist di King, il terrorismo islamico e non, e forse perfino le tecnocrazie contemporanee - racconta come non stiano messi male solo i protagonisti della serie, ma tutti noi.

Ho letto in giro che L'eternauta è ritenuto lento, e superficiale. Mi sembra siano delle posizioni indifendibili, forse figlie di chi ha gli occhi saturi di immagini seriali (ma non solo) che camuffano la loro insipienza dietro una facile aggressione sensoriale e a un abuso di sottolineature e di spiegoni. Perché Stagnaro, invece, sa benissimo come si parli per immagini, sa benissimo cosa sia lo spessore di un cinema - dove per cinema intendo ovviamente la forma più alta di racconto audiovisuale - che non ha paura degli spazi vuoti né dei momenti di silenzio, che anzi ne conosce il potenziale narrativo e emotivo, e al tempo stesso sa benissimo come mettere in scena suspense e paranoia e perfino azione senza che queste debbano diventare cinetismo senza senso buono per gli scarsamente alfabetizzati dell'audiovisivo. Forse il suo è un approccio "vecchio", perché così oggi alcuni definiscono una certa idea di classicità, ma la risposta sta nella serie: "il vecchio funziona".
Funziona perché l'immersione nel mondo cupo e grigio e già imbarbarito è totale, perché una Buenos Aires deserta e innevata è uno spettacolo affascinante e inquietante, perché in quella costante ansia che divora Juan Salvo, che ha le sue origini nel passato ma forse pure nel futuro, quel suo costante essere preda di un tarlo che gli dice che qualcosa non va, che le cose non tornano, che pure quando sembra vadano bene qualcosa può cambiare da un momento all'altro, e che sotto all'apparenza si nasconda qualcosa di diverso, quella sua insomma paranoia, e un pessimismo tutt'altro che latente, hanno una eco psicologica e politica mica da poco, nel mondo, quello nostro, di oggi.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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