Mission: Impossible - The Final Reckoning, la recensione del film: Tom Cruise, il cinema, il mondo
Presentato in prima mondiale a Cannes, l'ottavo film della serie che vede protagonista l'agente Ethan Hunt fa fare al personaggio ciò che Cruise fa col cinema nella vita. La recensione di Mission: Impossible - The Final Reckoning.
Ethan Hunt corre, Ethan Hunt fa il volto corrucciato, sorride. Ethan Hunt si libera dalle catene, uccide i nemici, salva gli amici (quasi tutti). Ethan Hunt s’immerge nelle profondità oscure dell’oceano artico, lotta con Gabriel appeso alle ali di un biplano. Ethan Hunt contro Gabriel, l’Entità, la CIA e l’IMF, Ethan Hunt sostenuto dal presidente - nero e donna - degli USA. Ethan Hunt da solo, solo col suo team, per salvare il mondo da un’apocalisse nucleare.
Non c’è stato il coraggio, o la volontà, di chiudere come ha chiuso Bond, ma l’impressione, e non solo perché Tom Cruise oramai ha 62 anni, pur essendo in formissima come ne avesse venti di meno, è che con The Final Reckoning la saga di Mission: Impossible voglia chiudere i battenti: perché mai come prima d’ora tutti i nodi sono venuti al pettine, tirando in ballo situazioni, citazioni e personaggi che riguardano praticamente (quasi) tutti gli episodi precedenti, e non solo i tre di McQuarrie, arrivando perfino al celebre furto dei dati a Langley nel primo capitolo di De Palma; perché con tutta la fantasia del mondo, è davvero difficile immaginare quanto oltre si possa spingere l’agente Hunt nel tentativo di completare una missione, o addirittura nell’obiettivo finale della missione stessa.
Qui, l’abbiamo detto, si tratta di salvare il mondo. Da un’intelligenza artificiale che ha mandato il mondo in tilt proponendo una realtà alternativa, e rendendo difficile distinguere il vero dal falso, ma che anche ha tutta l’intenzione di annientare l’umanità a forza di testate nucleari. E abbiamo appunto anche detto che Ethan, il mondo, lo salva praticamente da solo: talmente da solo che perfino all’interno degli scarsissimi parametri di realismo e credibilità della serie, in alcune situazioni, e in tutta una parte marina e sottomarina in particolare, McQuarrie e Cruise esagerano forse un po’, rasentando quello che in gergo viene chiamato “il salto dello squalo”.
Tanti fan e spettatori, la maggioranza, apprezzeranno comunque questo tentativo di andare all’estremo; altri magari storceranno il naso. Le quasi tre ore di film scorrono, ma sono un po’ ipertrofiche, e la sceneggiatura soffre di letteralismo e di abuso di spiegoni. Ma alla fine dei conti è difficile, direi quasi impossibile, che questo Mission: Impossible - The Final Reckoning riesca nella missione di deludere chi decide di andare a vederlo: perché lo spettacolo è garantito, e perché, per chi vuole di più, c’è anche della teoria implicita piuttosto interessante.
Come il precedente Dead Reckoning, di cui è diretta prosecuzione, più ancora che nel precedente Dead Reckoning, anche questo The Final Reckoning è infatti un film in cui le dicotomie tra analogico e digitale, tra reale e virtuale, tra verità e post-verità, sono al centro della trama in maniera ben più che esplicita.
E se quel film era cupo, con un Ethan pieno di dubbi, qui le cose vanno ancora peggio: perché non c’è solo cupezza, ma ansia pre-apocalittica, e al nostro eroe vengono rinfacciate tante, troppe cose del passato, e il peso sulle sue spalle si fa quasi schiacciante. Ed è qui che le cose si fanno allora davvero interessanti.
Di fronte a tutto ciò che si trova di fronte, alle proporzioni della minaccia, alla probabilità infinitesimale che ha di sventarla, con la responsabilità dei fatti e dei lutti del passato a schiacciarlo, spinto costantemente a dubitare di sé stesso, Ethan Hunt aveva due strade di fronte a sé: arrendersi, che è quello che tutti o quasi avrebbero fatto, o reagire con uno scarto che non dovremmo esitare a definire superomistico.
Perché, e questa è la cosa davvero interessante, forse un poco sbalorditiva di questo film, è che il superomismo e la megalomania di Ethan Hunt, nelle manifestazioni come negli esiti, sono esattamente gli stessi del suo interprete.
Facciamo un passo indietro, e torniamo alla cerimonia di premiazione degli Oscar 2023, nel corso della quale Steven Spielberg, non certo l’ultimo degli sprovveduti, disse di fronte al mondo che con il suo Top Gun: Maverick e la sua testardaggine nel farlo uscire in sala, aveva salvato da solo Hollywood e la distribuzione in sala. In poche parole: il cinema così come lo conosciamo.
Cruise, che è uno che problemi di scarsa autostima decisamente non ne ha, quella dichiarazione l’ha presa molto sul serio, e l’ha fatta sua ancora di più di quanto non avesse fatto in precedenza: perché è chiaro che Top Gun: Maverick non è bastato a rimettere a posto le cose nel mondo del cinema, ed è chiaro che l’intenzione di Cruise con questo film è quella di chiudere i conti con la crisi una volta per tutte.
Ecco allora che la determinazione di Ethan a fare tutto da solo (e col suo team) per salvare il mondo è la stessa di Cruise che (col suo suo team) vuole salvare il mondo del cinema. E lo vuole fare con un film che contiene tutto quello che contiene o deve contenere il cinema così come intende Cruise: nel cosa, nel dove, nel come. Lì dove il cosa è lo spettacolo di un cinema contemporaneo sì ma capace di guardare alla tradizione e alla storia; il dove è ovviamente la sala; il come è un approccio che sia tanto analogico da non esaurire in un’immagine virtualizzata la sua dimensione più legata allo stupore, ma anzi di basarsi - come ben sappiamo - su una fisicità che è tutta rappresentata nel corpo in carne e ossa dell’eroe.
Certo, se nell’ambito della finzione Ethan Hunt riesce nel suo intento, salva il mondo da solo grazie al suo superomismo, alla sua determinazione, alle sue straordinarie capacità (vagamente sovrumane, ma fa niente), resta da vedere se Tom Cruise riuscita nel suo, ovvero quello di salvare un cinema che pare sempre sulla soglia di un qualche abisso o di una qualche catastrofe, ma che riesce comunque sembre a fare quello scarto che gli permette di sopravvivere, anche se magari non di prosperare.
D’altronde, non è che possano andare sempre tutte dritte. Perché certo, in The Final Reckoning Ethan salva il mondo, ma qualcuno di caro lungo la strada se lo perde, dopo aver perso - mossa che non perdoneremo mai alla serie - la Ilsa Faust di Rebecca Ferguson nel capitolo precedente, rimpiazzata fin troppo rapidamente dalla poco interessante Grace di Haley Atwell.
Ma nonostante i dolori, le perdite, i colpi e le ferite, nonostante tutto, Ethan sopravvive. Di più: resuscita (c’entra una chiave che è cruciforme, guarda un po’), riemerge dall’oscurità degli abissi e riprende a respirare, grazie anche all’amore (di Grace, la grazia, appunto), e si fa sempre più pronto a raggiungere il suo scopo.
Mission: Impossibile - The Final Reckoning è una continua corsa contro il tempo, contro i limiti dell’umano, contro le storture di un mondo che, secondo McQuarrie e Cruise, si sta affidando troppo all’artificiale dimenticando le potenzialità - fisiche sì, ma prima di tutto morali e sentimentali - della natura umana. E che tenga spesso e volentieri col fiato sospeso, è un dato di fatto innegabile.
Tra personaggi che hanno fatto la storia della serie, funzionali nuove entrate (continua a stupire, sebbene forse sottoutilizzata Pom Klementieff), e invenzioni mirabolanti, questo film senza un punto a capo probabilmente definitivo per Ethan Hunt e i film che lo raccontano. Anche perché c’è un sospetto: nonostante tutto, l’ego sempre più ipertrofico di Cruise qui non fa implodere tutto, e anzi trova una certa sua funzionalità. Ma se si dovesse fare un ulteriore passo in avanti, invece di avere la lucidità di farne uno indietro, Mission: Impossible rischierebbe di finire male, anziché in gloria.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival