Final Destination: Bloodlines, la recensione: la Morte torna protagonista e si gode la sua vendetta
Non solo non delude, questo sesto film della serie, ma è in grado di aggiornare in maniera interessante un format che funziona ancora benissimo. La recensione di Final Destination: Bloodlines di Federico Gironi.
La vendetta, si sa, è un piatto che va servito freddo. E la saggezza popolare cinese insegna a sedersi lungo la riva del fiume e aspettare, perché prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico. Se poi sei la Morte, che è la vera protagonista di Final Destination Bloodlines e degli altri precedenti cinque film di questa saga, il proverbio è da prendersi alla lettera.
Già perché in questo nuovo Final Destination, che ripropone lo stesso format e lo stesso schema di sempre, la Morte dispiega il suo piano nel corso di decenni e generazioni. La classica scena di disastro e decessi che apre il film, ambientata su una specie di Fungo dell’EUR americano, ambientata nei primi anni Sessanta - non solo tanto gli abiti o le auto, a stabilire le date, quanto una band che canta “Shout” degli Isley Brothers come in Animal House - è chiaramente la solita premonizione, anche se viene spacciata come incubo della giovane Stefanie, diciottenne del nostro presente.
Per farla breve: quell’incubo è la premonizione che ai tempi ebbe Iris, nonna di Stefanie, che portò in salvo centinaia di persone, mica solo cinque o sei come negli altri Final Destination, costringendo così la Morte a recuperare il lavoro di un attimo nel corso di un tempo lungo e dilatato, e a includere pure figli e nipoti di quelli che sono sopravvissuti, e che quindi non avrebbero nemmeno dovuto nascere. Insomma, sessanta e passa anni dopo, la Morte chiede il conto a Iris, che ha passato la vita a nascondersi da lei, e alla sua famiglia.
Non ci sono significati particolarmente profondi dietro alla scelta di Bloodlines di basare il suo racconto, come suggerisce il titolo, su un legame di sangue; sul fatto che a dover temere per la propria vita non sono un gruppo di amici o di sconosciuti scampati per caso a una Morte che poi li insegue uno a uno, ma su un gruppo di giovani e meno giovani che sono i discendenti di quella che ha scombinato i piani del Tristo Mietitore. Il tema non è la famiglia, in fin dei conti, quanto il fatto che la Morte è così metodica e rosicona da portare avanti il suo lavoro a costo di farlo durare un tempo finora inedito (nella saga). E magari anche quello dell’eredità che si passa di generazione in generazione.
Quello che la serie di Final Destination ci ha sempre detto, in fin dei conti, è che quando le cose devono andare in un certo modo (male) ci andranno: qui è la stessa cosa, solo che c’è un po’ più di enfasi sul fatto che se le cose vanno male può essere non per colpa nostra, ma per colpa delle generazioni che ci hanno preceduto. Un discorso che dovrebbe suonare familiare a molti di noi, specie appunto tra i coetanei dei personaggi principali di questo film.
L’altra cosa che la serie di Final Destination ha sempre fatto, è quella di ammantare questa cupa ineluttabilità del destino (giacché, purtroppo, presto o tardi tutti noi dobbiamo morire, anche se non ci vogliamo pensare) di tantissima ironia e di una violenza paradossale e iperbolica, tanto più liberatoria quanto più assurda e sanguinaria. Anche e soprattutto da questo punto di vista, Final Destination Bloodlines non delude affatto, anzi segna un netto scarto in avanti, qualitativamente parlando, rispetto agli ultimi due episodi della serie, che pure con qualche scena azzeccata (di morti memorabili ce n’è sempre almeno una in ogni film) lasciavano complessivamente un po’ a desiderare.
Sceneggiatori e registi hanno fatto il loro lavoro, che era quello di non prendersi troppo sul serio (e anzi giocando ancora di più di quanto non sia avvenuto in precedenza con i toni ironici e sarcastici) e di mettere in scena dei trapassi elaborati e con tassi elevati di splatter. E di morti memorabili, in Final Destination Bloodlines, senza entrare in alcun dettaglio per non rovinare la sorpresa, ce ne sono decisamente più di una.
Tra citazioni più o meno esplicite dei momenti migliori della serie (i tronchi tornano) e una colonna sonora che fin dai primissimi minuti, prima ancora di “Shout” gioca a prendere classici del rock e del pop per fare da controcampo ironico a quanto sta avvenendo sullo schermo, Final Destination Bloodlines svolge impeccabilmente il suo compito, diverte e (un po’) sorprende, tanto che gli si perdona anche una durata che esonda di una ventina di minuti quello che era lo standard di una serie tarata sui 90 minuti (qui si arriva a 110, ma non pesano).
Poi, se proprio vogliamo tornare a fare discorsi più seri, e forse non ce ne sarebbe nemmeno il bisogno, il fatto che a 25 anni dalla nascita di una saga che incarnava e esorcizzava paure e incertezze relative a un secolo nuovo e sfide mondiali nuove, le cose non siano affatto migliorare ma semmai peggiorate (perché mai come prima la Morte qui è protagonista implacabile e pure un po’ incazzosa), è qualcosa su cui potremmo o forse dovremmo riflettere, una volta archiviate le risate, i salti sulla poltrona e le previsioni di qualche complesso meccanismo sarà messo in atto per martoriare i corpi dei giovani protagonisti del film.
E in fondo, la cosa più sensata la dice Tony Todd, qui alla sua ultima apparizione, e a cui il film è dedicato: nella vita non si sa mai, quindi meglio viverla al meglio in ogni momento.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival