Two Prosecutors, la recensione del film di Sergei Loznitsa in concorso al Festival di Cannes 2025
Loznitsa torna alla finzione per raccontare le purghe staliniane attraverso l'analisi della burocrazia della repressione (e c'entrano anche Asterix e Wes Anderson). La recensione di Two Prosecutors di Federico Gironi.
La didascalia sta lì a indicarlo: siamo nel 1937, all’apice del regime di terrore di Stalin, di quell’opera metodica e spietata di repressione e eliminazione fisica di ogni possibile dissidente e dissenso passata alla storia con il termine “purghe staliniane”.
Gelido, geometrico, stilizzatissimo, il film di Sergei Loznitsa, che qui torna alla finzione dopo anni di celebrati documentari, ci porta con la prima inquadratura dentro un carcere gestito in maniera algida e spietata, dal quale però riesce a uscire, miracolosamente, uno dei mille appelli scritti da detenuti finiti lì per accuse false o per confessioni estorte tramite tortura dal famigerato NKVD, il Commissariato del popolo per gli affari interni. E allora a entrare nel carcere è un giovane magistrato, novellino e idealista, che di fronte a quello che gli viene detto dall’autore del biglietto decide di intervenire, di fare qualcosa. Di andare a Mosca, parlare col ministro.
L’esito della vicenda è scontato, ma questo non è un problema, anche perché il copione di Loznitsa nasce dal romanzo - in qualche modo autobiografico - di Georgy Demidov, fisico che ha scontato diciotto anni di ingiusta prigionia. Non è un problema perché un’altra risoluzione non era possibile, e l’intento di Loznitsa, che parla chiaramente del passato perché le suocere del presente intendano, è quello di raccontare non tanto l’orrore e l’ingiustizia, quanto il clima e il sistema e la scientificità del suo dispiegarsi.
Non ci sono scene sensazionali, in Two Prosecutors. Non c’è esibizione della violenza, delle torture, della spietatezza. C’è, e c’è praticamente da subito, da quando il protagonista entra nel carcere e viene sottoposto a stremanti attese e a conversazioni cariche di allusioni sottili e inquietanti, il dispiegamento di quella che potremmo chiamare la burocrazia della repressione.
Quando infatti il giovane magistrato, ottenuto il suo colloquio col detenuto, decide di muoversi perché la giustizia torni a essere applicata, e arriva a Mosca, e al ministero, ecco, in quella parte lì del film, sembra quasi - non è così, ovvio, ma permettetemi il paragone - che Loznitsa si sia ispirato al capitolo più celebre e riuscito delle Dodici fatiche di Asterix, quello della “casa che rende folli” e del lasciapassare A-38. Non a caso, è lì che avviene un incontro tra il protagonista e uno stralunato personaggio che, fermo sul pianerottolo della grande scala che sale di piano in piano al centro del ministero, gli chiede tremebondo come si esca da quel luogo.
Burocrazia del terrore, importanza ambiguità della parola, impenetrabilità di un sistema dittatoriale nel quale a non avere senso, a rendere folli, è proprio l’illusione dell’esistenza di un apparato giudiziario funzionante secondo criteri logici e normali.
Questo, in maniera forse troppo dritta e un po’ sfiancante, ma con efficacia, racconta Two Prosecutors. E questo Two Prosecutors lo racconta con uno stile visivamente ricercatissimo, fatto di inquadrature fisse e geometriche dalla fotografia raffinatissima, popolate al loro interno da un decor essenziale ma al tempo stesso curatissimo e ricercatissimo. Perché questo nuovo di Loznitsa è un film di forma, di una forma che - come la forma della dittatura che racconta - si fa contenuto. Di una forma così geometrica, studiata e elaborata, anche se con un gusto, un’estetica e un taglio così differenti, da ricordare quasi quella del formalista per eccellenza di questi anni: Wes Anderson.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival